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Nobody Collective Experience, foto Angelique Preau - Daniele Ninarello

Il corpo come luogo di mediazione sociale. Intervista a Daniele Ninarello e Mariella Popolla 

26 maggio 2023

NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok. Collective experience di Daniele Ninarello e Mariella Popolla è un progetto rivolto agli adolescenti e alle scuole. Attraverso diverse attività (dialogate, agite, performate) vengono indagate le memorie e le tracce lasciate sul corpo dalla cultura del controllo, della violenza, della mascolinità tossica, dell’offesa. La ricerca di Ninarello e Popolla avvicina gli studenti alla pratica artistica come strumento per sollevare questioni culturali e politiche, trasformando il corpo in un luogo interattivo.

Daniele Ninarello, foro Luca Centola

Nella primavera 2023 siamo tornati a collaborare con i due artisti per portare NOBODY NOBODY NOBODY all’interno dell’Istituto Comprensivo Tommaso Grossi di Milano. Un’azione pensata nell’ambito di Le età del desiderio, nostro progetto intergenerazionale e multidisciplinare – sostenuto da Fondazione Cariplo – che coinvolge adolescenti e anziani di Milano in processi partecipati di ricerca e creazione performativa, affidati ad artisti italiani e internazionali in dialogo con la scena artistica della città. Da qui l’occasione per approfondire il lavoro di Ninarello e Popolla.

Mariella Popolla

Demetrio Marra: Domanda facile (?): perché nelle scuole?

Daniele Ninarello: NOBODY NOBODY NOBODY nasce da un mio assolo, si riallaccia a ciò che ho vissuto da adolescente. Parlo prima degli obiettivi, però: il progetto nasce perché Mariella e io volevamo comprendere meglio un soggetto che molto spesso – se non sempre – è escluso dalla mobilitazione, dal pensiero politico che nasce dalla crisi.  

Mariella Popolla: Dal desiderio di rivolta, sì. Provo a spiegarmi: ci siamo resi conto incontrando queste ragazze e questi ragazzi, che esiste – anche a causa dello stop forzato, diciamo così, imposto dalla pandemia – un desiderio di rivolta inespresso. Inesprimibile, anzi, perché manca storicamente la trasmissione tra generazioni di strumenti, modalità e pratiche di protesta. Molte non sanno cosa sia un sit-in, per dire, non riescono a immaginare l’occupazione di una scuola, non hanno mai partecipato a un’assemblea. Ci ha stupito da un lato negativamente – non possiamo negarlo –, dall’altro positivamente, perché, e qui viene la progettualità artistica, avremmo potuto immaginare nuove forme. 

Foto Lorenza Daverio

DM: Forse è qualcosa di trasversale, non solo delle giovani generazioni. Stiamo parlando di assenza di agentività (agency), cioè di pratica e pensiero attivi. Penso all’opera teorica di Daniele Giglioli e soprattutto a Stati di minorità, anche se il “pessimismo” suo, sulla radicale passività della nostra società, non riesco a condividerlo [qui una mia intervista a Giglioli, per lay0ut magazine, ndr]. Però sono d’accordo – del resto insegno in una scuola media – sullo “stupore”. Già la scuola costringe loro a stare seduti per ore, a tenere i piedi sotto il banco, a bere solo se autorizzati, ad andare in bagno lo stesso, a rispettare e anzi assecondare la continua valutazione della performance, a osservare l’autorità degli adulti indipendentemente dalla ragione. La pandemia ha accentuato questa sensazione di illibertà, non so come dire. E infatti il vostro lavoro, credo, parte proprio dal tentativo di insegnare a come riappropriarsi del proprio corpo. 

DN: Sì, sì. 

Nobody Collective Experience, foto Angelique Preau

DM: Nelle classi non c’è “libertà”, non è molto diffusa la pratica dell’assemblea, non sono tanti i momenti “collettivi”. E non circolano, volenti o nolenti, le opinioni, perché c’è un’idea gerarchica e verticale di insegnamento (da entrambe le parti). È un residuo della scuola tradizionale, che forse non piace a nessuno. 

DN: Allora, io sono performer e coreografo, mi occupo di ricerca performativa e compositiva. Mariella invece è una sociologa. Il suo lavoro mi permette di osservare lo stato dei corpi anche da un punto di vista collettivo, e quindi di riflettere sull’ambiente, su come oggi informi i corpi e viceversa. Un’osservazione fondamentale, soprattutto perché il progetto nasceva da alcune personali proteste durante il periodo del lockdown. Le chiamai “proteste silenziose”. Il corpo attraverso il silenzio costruisce un atto politico. Una nuova forma politica dell’esistere.

Foto Lorenza Daverio

DM: Sicuramente, un corpo che rinuncia al corpo. 

DN: Anche, se vuoi. La prima questione secondo noi da affrontare, appunto, riguarda il corpo. È attraverso la conoscenza, sempre conflittuale, del proprio corpo che si può agire sulla consapevolezza. Ci siamo più volte trovati di fronte a studentesse e studenti che fanno molta fatica a comprendere che cosa sentono, che cosa e come percepiscono e quindi, di conseguenza, fanno ancora più fatica a sapere e a comprendere come esprimere quello che sentono. L’espressione del dissenso, a queste condizioni, non è praticabile. Si sentono obbligate e obbligati ai nostri spazi, senza abitarli. Poi c’è il riconoscimento. La scuola non è uno spazio adatto ai corpi. Questo influisce sul disorientamento degli alunni e delle alunne. Non solo non c’è consapevolezza di cosa senta il corpo, ma non vengono riconosciute le forme di protesta e dissenso che il corpo spontaneamente e intuitivamente mette in gioco. Qui il ruolo di Mariella è fondamentale. È come se attraverso questo percorso che facciamo insieme loro nominassero finalmente cose che già esistevano, a livello individuale. Noi cerchiamo il collettivo. 

Foto Lorenza Daverio

MP: Abbiamo lavorato veramente in tanti tipi di scuole, dal liceo classico al liceo delle scienze umane, agli istituti tecnici, alle scuole medie, eccetera. C’è un elemento che viene fuori, fondamentale: il contesto di provenienza di queste ragazze e di questi ragazzi, sia culturale sia sociale. Corpi abbandonati, dimenticati. Forse i corpi più liberi che abbiamo incontrato sono proprio questi, si sono ritagliati in qualche modo uno spazio di prova. Vediamo spesso, d’altra parte, corpi molto disciplinati, molto rigidi. Corpi che non fanno passare nulla, in uscita o in entrata. Sono i corpi con cui è più difficile lavorare, no, Daniele? Sembrano corpi morti, asettici. 

DN: Sì, difficilissimo. 

NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok – Daniele Ninarello e Mariella Popolla

MP: In questo senso, il nostro lavoro vuole aiutare a riconoscere gli strumenti per mettere in dialogo, collettivizzare i corpi. 

DN: Corpo come luogo di mediazione sociale, sul quale accadono cose che possono essere restituite. 

MP: C’è anche il tema della noncuranza. Molti di loro sentono che a nessuno importa.

DN: Abbiamo lavorato in diverse città e sono sempre accadute cose sorprendenti. Ci hanno fatto credere che avesse sicuramente un senso continuare ad andare avanti, nella volontà di creare un ambiente e uno spazio in cui tutte e tutti potessero sentirsi accolti, ma anche necessari.
Nella prima classe in cui siamo entrati, in pieno 2020, durante un’assemblea un ragazzo ha affermato che quando le ragazze si vestono in un certo modo, con la minigonna per dire, allora significa che c’è il desiderio di provocare e che è legittimo che lui “guardi”. È un discorso che conosciamo bene. Il ragazzo è stato attaccato da tutta la classe, e lui a un punto ha chiesto esplicitamente di discuterne, perché quello che ha sostenuto si basava esclusivamente sulla sua esperienza. Non avevo mai assistito a una dichiarazione di vulnerabilità così.

Foto Lorenza Daverio

DM: Bello. E non fate solo assemblee. 

DN: Proteste vere e proprie, sit-in, anche in strada. Abbiamo organizzato dei flash mob in cui ognuno di loro era libero di esprimersi, purché silenziosamente. Corpi dimenticati e abbandonati in spazi, però, visibili. 

MP: I risultati dei progetti sono stati molto positivi. Si sono, soprattutto, generate nuove alleanze laddove prima nelle classi la situazione era complessa. Non c’era interazione. La cosa strabiliante è che la liberazione non passa dall’individuale al collettivo. Abbiamo notato che è esattamente l’inverso, prima la “liberazione” è collettiva, poi si traduce in individuale. Abbiamo lavorato su tutto ciò che è sociale nei corpi, la loro disciplina, la rimozione delle emozioni individuali nelle dinamiche di gruppo. Un altro esercizio che facciamo prevede che loro si uniscano alla protesta iniziata da una delle compagne o dei compagni, senza sapere contro cosa stia protestando. Lo sappiamo solo noi due. La singola persona si mette al centro dell’aula, che rappresenta in quel momento la piazza, e assume le posture che desidera. È una risonanza di corpi, alla fine, senza “contenuto” esplicito. 

Foto Lorenza Daverio

DN: Capire come la vita delle altre persone risuona con le mie corde. Cerchiamo proprio questa permeabilità dei corpi. Vulnerabilità e performatività. Ho notato anche, lavorando sulla danza, che nonostante la loro sia una generazione abituata a ripetere i balletti di TikTok, per dire, i maschi hanno molta difficoltà, vergogna. Perché solitamente viene in qualche modo accostato all’essere femminile. Eppure siamo riusciti in qualche modo ad abbattere le barriere o a ragionare insieme sulla collettività, la condivisione, l’alleanza. Ti dicevo all’inizio che tutto parte dalla mia esperienza personale. Ecco: l’essere femminile, non conforme all’idea di maschio tradizionale. 

DM: Sì. Non solo femminile a livello gestuale, ma – come dire – anche caratteriale a quell’età è un problema, dimostrare cura.  

MP: Anche perché i generi si costruiscono molto in modo complementare. Mettendo in crisi uno dei due, anche l’altro in qualche modo ne esce riformato. Ha detto bene Daniele all’inizio: dalla crisi nasce un pensiero politico. Cerchiamo, attraverso il corpo, che sia nel senso della libertà.

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