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Comedores Comunitarios, Città del Messico, foto MAIO

Cucine urbane

Come si trasforma la cucina da luogo di emarginazione a spazio di condivisione e di possibile emancipazione? Lo studio di architettura MAIO  propone – all'interno della mostra Home Sweet Home – Urban K-Type, un prototipo di cucina urbana frutto di una profonda ricerca sul ruolo politico di questo ambiente. Una delle fondatrici dello studio, Anna Puigjaner, ci racconta di come si possano trovare esempi di cucine comunitarie in varie parti del mondo, dal Perù passando per il Messico, fino a Tokyo.

Installazione di MAIO per Home Sweet Home, Triennale Milano, 2023, foto Simone Marcolin

Installazione di MAIO per Home Sweet Home, Triennale Milano, 2023, foto Simone Marcolin

Lima, Perù

Una delle tipologie di cucina urbana attualmente più diffuse è nata alla fine degli anni settanta a Lima, in Perù, durante il periodo di grande mobilitazione sociale e politicizzazione che portò alla caduta del regime militare. Tra il 1978 e il 1979 il sindacato nazionale degli insegnanti SUTEP, che si batteva per ottenere salari migliori, occupò le scuole locali. In solidarietà con gli scioperanti, gruppi autorganizzati di donne iniziarono a preparare grandi quantità di cibo collettivo per sfamare gli occupanti. Per settimane le scuole divennero luoghi di discussione politica sulle condizioni di lavoro, sulla casa e sulla comunità e molte delle donne che preparavano il cibo collettivo parteciparono a quelle riunioni politiche. Vennero così incoraggiate a fondare un’organizzazione femminile che si occupasse di fornire pasti alle famiglie e alla comunità in generale.

La semplice azione di spostare all’esterno della casa un’azione ordinaria e normalmente privata come cucinare, mette in luce la storica conflittualità del rapporto tra vita domestica e lavoro di cura.

All’inizio le cucine collettive erano ospitate in vecchie case, ma negli anni ottanta, sotto il governo di Fernando Belaúnde (1980-1985), queste iniziative comunitarie furono ampliate grazie a una serie di progetti. Fu promossa, tra le altre cose, la progettazione e la costruzione di una specifica tipologia di cucina urbana, all’interno di spazi che non superavano i settanta metri quadrati e che di solito erano situati nei crocevia, vicino ai centri sociali o alle piazze pubbliche. Ben presto queste iniziative “culinarie” si sono spinte ben oltre la preparazione dei pasti, evolvendosi in complesse imprese a conduzione femminile che hanno incoraggiato le donne a diventare soggetti politicamente attivi.

Comedores Populares, Lima, foto MAIO

Le cucine sono diventate il luogo in cui le donne hanno potuto sviluppare la capacità di pianificare e negoziare proposte di progetti comunitari con lo Stato, con il settore privato e con altre organizzazioni internazionali di aiuto. Quando tutto questo è iniziato, le donne non avevano alcuna visibilità sociale o politica né accesso alle risorse e all’istruzione. Queste cucine hanno quindi significato molto di più del semplice accesso al cibo: sono state un’opportunità per partecipare attivamente in un’organizzazione pubblica, al di là della sfera domestica privata. Attualmente, i cosiddetti comedores populares di Lima forniscono cibo a quasi mezzo milione di persone ogni giorno, impiegano oltre centomila lavoratrici e in molti casi sono politicamente attivi.

Urban Kitchen, Barcellona, 2022, foto Josè Hevia

Città del Messico, Messico

Nel 2009 il governo di Città del Messico – colpito dall’esperienza di Lima e in risposta alla crisi finanziaria degli anni duemila – ha avviato un programma sociale chiamato Comedores Comunitarios, con l’obiettivo di alleviare la pressione economica dovuta alla grande recessione. Anche se le mense per i poveri erano in funzione già da anni e servivano pasti gratuiti a persone con risorse molto limitate, gran parte della popolazione colpita dalla crisi non poteva usufruirne perché la sua situazione economica non era abbastanza grave o semplicemente perché non si sentiva di farlo. La città ha deciso quindi di promuovere cucine collettive gestite con un sistema misto – metà pubblico e metà privato, con responsabilità condivise – per incoraggiare la partecipazione della comunità e il senso di appartenenza dei cittadini, ottenendo un impatto significativo con un impiego di risorse economiche limitate. Il sistema è semplice: qualsiasi gruppo di tre cittadini con la disponibilità in casa di una stanza più grande di trenta metri quadrati può fare domanda per utilizzarla come comedor comunitario. Se viene accettata nel programma, il comune vi installerà una cucina industriale e consegnerà vari alimenti non deperibili come riso o fagioli con cadenza bisettimanale o mensile. I responsabili di ogni comedor, dal canto loro, dovranno cucinare per la comunità, offrendo un pasto giornaliero. Grazie a questa sovvenzione governativa, il pasto verrà venduto a un prezzo basso, ma sarà assicurato un salario minimo a chi partecipa alla preparazione del cibo e alla manutenzione dello spazio.

Urban Kitchen, Barcellona, 2022, foto Josè Hevia

Trasformando l’intimità della casa in un’infrastruttura pubblica, il programma, da un lato, riconosce la condizione generale della vita domestica contemporanea e, dall’altro, affronta il problema della precarietà del lavoro e i pregiudizi eteropatriarcali: infatti, nei comedores non cucinano soltanto le donne ma gruppi di cittadini che appartengono a un sistema pubblico e sono in grado di impegnarsi con diverse strutture sociali. Negli anni successivi all’avvio del programma, centinaia di case di Città del Messico sono state riorganizzate per ospitare i comedores comunitarios, che hanno trasformato le abitazioni private in spazi pubblici. In genere la conversione di un’abitazione in un comedor comporta soltanto modifiche di piccola entità: la sala da pranzo comune può essere situata semplicemente in un ex garage o in un patio coperto. Durante le ore del pranzo i residenti convivono con i vicini, così il pubblico e il privato, il domestico e l’urbano coesistono.

Tokyo, Giappone

L’emancipazione sociale promossa da questo tipo di cucine urbane è stata una delle forze trainanti di un movimento emerso qualche anno fa in Giappone. Nel 2012, per reagire al crescente isolamento e all’affievolirsi dei legami sociali, Hiroko Kondo ha cominciato a organizzare nel suo negozio di alimentari una cucina collettiva pop-up per i bambini del suo quartiere. La sua iniziativa ha ispirato numerose attività simili, tanto che oggi a Tokyo esiste una rete di circa cinquecento gruppi di cittadini, organizzati online, che occupano strutture già esistenti come bar o panetterie per cucinare i pasti quotidiani.

Kodomo shokudō, Tokyo, foto MAIO

Chiamata kodomo shokudō, questa tipologia di cucina “effimera” giapponese abbraccia un insieme molteplice ed eterogeneo di spazi e attività diverse, e ruota tutta intorno all’atto di condivisione del cibo e al suo potenziale di abbattimento delle barriere culturali, sociali e intergenerazionali. Questo modello ha successo grazie alla sua natura “liquida” e digitale, in grado di muoversi, adattarsi e cambiare a seconda degli spazi disponibili e delle esigenze di chi vi partecipa. Si tratta di un’architettura fondata su un capitale dal carattere dispersivo, in cui il cosiddetto lavoro riproduttivo è organizzato in modo aperto ed è capace di creare nuove strutture sociali e relazioni di tipo famigliare tra persone non strettamente consanguinee.

Urban Kitchen, Barcellona, 2022, foto Josè Hevia

Crediti

Il testo è un estratto tratto dal saggio Urban K-Type incluso nel catalogo della mostra Home Sweet Home, a cura di Nina Bassoli, Electa 2023, pp. 104-115

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