Dove comincia la danza? Forse lì, dove c’è una mancanza. Lì, dove subentra il gesto. Danziamo le assenze, in fondo: quando c’è uno spazio vuoto, lo tagliamo col movimento, riempiendo le fessure. Cioè, stiamo ricordando, progettando, recuperando la memoria e riportando l’esistenza sul piano di un futuro desiderato; stiamo dando quel bacio che non abbiamo mai dato, stiamo chiedendo scusa come avremmo voluto fare, stiamo ascoltando tutto ciò che ci è stato sempre taciuto.
Dance Well in Triennale Milano
La danza comincia lì, dove c’è un vuoto da riempire: è un atto di volontà creativo, un impulso che porta alla creazione di un qualcosa che è sempre in potenza. Tutti i corpi possono danzare, cioè possono maturare quell’atto di complementarità di tutti i non detti e di tutti i non agiti della vita.
Così, almeno, mi piace raccontare la danza: come una pratica energetica nella quale, con l’esercizio del gesto, si attraversa, a volte penosamente, un percorso di autocoscienza. Come a dire “mi muovo, dunque sono”, avvio una rotazione dentro il e del mio corpo per radicarmi in una cornice fenomenologica innegabile; e in questo spazio ho il potere infinito e semi-divino di alterare il tempo attraverso il movimento, dilatando e riavvolgendo il nastro della mia storia.
© Lorenza Daverio
La danza, quindi, come pratica intimista di accoglienza dei sé e come relazione intima con l’andamento della musica, direbbe Peter Brook, o come pensiero-in-movimento, per coinvolgere Rudolf Laban in questa elegia del gesto. Dunque, si può, si deve persino, danzare da soli: essere fiocchi di neve, essere uccelli, persino idee, per romanticizzare la pratica con Paul Valéry. Ma quanto è più potente e ancestrale la danza collettiva? Quanto la nostra stessa storia umana è radicata nel rituale condiviso che esorcizza e purifica? Le basi stesse della mitologia, che ancora è capace di spiegare pressoché tutte le intenzioni che ci motivano, si radicano nella danza come un passo che incede, accordandosi a un ritmo e a un respiro condivisi. Dobbiamo pensare alla danza nei suoi elementi materici più connotati: spazio e tempo.
Con l’esercizio del gesto, si attraversa, a volte, un percorso di autocoscienza.
Uno spazio che esplode, dall’intimità delle camere ai crocevia delle piazze, dalle dance hall e dai teatri fin nelle strade: riti di inversione che rovesciano e spiazzano le convenzioni dialogiche sociali. Come a dire: per una volta parliamoci senza dire, sentiamoci senza comunicare, accordiamoci senza informare. La danza come atto trasgressivo intrinseco rivoluziona la permeabilità del sentire, apre le porte della percezione e genera un contattoabdicato dal mondo secolare della frenesia. I corpi sono immersi in uno spazio inusuale e in un tempo comune, mossi da una carica libidinale, mossi dalla volontà di una reciproca e agognata conoscenza diretta, non mediata, non rimandata.
A coronamento di questo gesto, capace di risignificare spazio e tempo e di riorientare la percezione di sé e quella collettiva, generando la speranza costruttiva verso ciò che ancora non c’è, esiste il suono. Il suono che è il ritmo del respiro affannoso e del cuore che batte, che genera la vera temporalità della vita nel suo dispiegarsi. “La musica che ti punge e ti urta”, scrivono Luigi Nono, Giovanni Pirelli e gli operai torinesi sul “Nuovo Canzoniere Italiano” negli anni Settanta: la musica primordiale, solo percussioni e rumori. E dall’altra parte gli impiegati di fabbrica, scaraventati fuori dal rumore primigenio: non battono i piedi, tumtumtum, non battono le latte, tumtumtum, non sentono neanche le lamiere che cadono. Così la loro ribellione avviene cercando il gesto dentro la realtà del suo valore sonoro: ci sono violini e clarinetti da concerto da camera, certo, e poi ci sono i rumori, quelli che non ti lasciano stare fermo, che ti inducono a battere e a picchiare e a fare tumtumtum.
© Lorenza Daverio
Danzare la propria musica, la musica di tutti, ritrovandosi dentro accordi inediti al sentire comune, alla struttura dominante, al pensiero verboso di massa. Per questo, ogni corpo deve e può danzare. Questo atto può diventare pratica artistica quando esiste un percorso di apprendimento e messa in prova, come quello previsto dal progetto Dance Well – ricerca e movimento per il Parkinson. Il progetto europeo, sostenuto dal programma Creative Europe dell’Unione Europea, destinato principalmente a persone che vivono con il Parkinson, promuove gratuitamente la danza in contesti artistici inediti e spazi museali, approdando anche in Triennale Milano. In due anni i laboratori, condotti da insegnanti specializzati, si sono intrecciati con la programmazione di mostre e spettacoli dell’istituzione culturale, e recentemente si è tenuto un incontro con la guida degli artisti internazionali François Chaignaud e Marie-Pierre Brébant. Nel progetto la danza si è fatta impegno civico e progetto democratico di inclusione, garantendo una sistematicità didattica e pedagogica e una contaminazione di storie e aspirazioni diverse tra loro.
Dance Well con François Chaignaud e Marie-Pierre Brébant, © Lorenza Daverio
Dance Well è quindi una celebrazione della propria individualità incarnata, un atto di generosità che i partecipanti hanno rivolto a se stessi; ed è un gesto etico e politico perché ha creato comunità capace, per un momento, di pensare l’impensabile. Si è realizzata, con coraggio, quella possibilità che si credeva utopica, lì dove la tensione verso l’utopia dovrebbe essere il cuore stesso della politica (e soprattutto delle politiche culturali): far danzare, insieme, persone affette da Parkinson – ma non solo! – e farlo con la serietà di chi si dedica a una pratica artistica, e concretizzandola nella ricerca ininterrotta e aperta all’imprevedibile.
La danza come congiuntura tra tutti i poli antitetici e apparentemente inconciliabili tra loro nella farraginosa vita quotidiana: la gravità e la leggerezza, l’alto e il basso, l’elevazione e il crollo, “la pesantezza e la grazia”. Di nuovo, i vuoti riempiti con l’immaginazione, staccare gli occhi da terra assieme ai piedi: compiere un passo, di lato, davanti e indietro, cercando quella figura, amplificando quel ritmo. E dal passo di danza tornare al movimento metamorfico per eccellenza che è la vita stessa.