Appare come un sole metallico in uno degli spazi esterni accanto al monumentale ingresso di Triennale; composta da falci dorate si mostra ai visitatori come una forma che ricorda le geometrie di un fiore ma che al tempo stesso potrebbe evocare il moto minaccioso di uno spietato ingranaggio meccanico. Falena, il titolo di questo “oggetto”, è in realtà una delle ultime opere dell’artista Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976) tra i protagonisti più affascinanti e atipici dell’arte italiana dell’ultimo ventennio. Capace di tradurre la propria poetica attraverso un ampio spettro di medium artistici, Vascellari interroga da anni la materia, il suono e la dimensione attiva dell’atto performativo visitando e rivisitando il proprio personalissimo immaginario. Falena, entrata a far parte della collezione permanente di Triennale Milano, sarà esposta al pubblico fino al 2 luglio 2023.
Falena, Triennale Milano, foto Gianluca Di Ioia
Mi racconti Falena? Quali sono gli elementi visibili e invisibili che la compongono?
Falena si manifesta come una scultura di falci agricole in bagno galvanico d’oro disposte radialmente su quattro livelli sovrapposti sui quali si depositano e celano i nostri ricordi atavici degli elementi che la compongono. Un connubio di vissuto, dedotto e fantasticato.
Durante l’ultima ora della mia performance Gnawing my Own Teeth Behind A Closed Door una falena apparve dal nulla e dopo avermi ruotato attorno si posò sul mio naso. Continuai la performance e la falena camminando si fermò prima sulla bocca e poi sul petto per poi riprendere il volo e tornare da dov’era venuta. “Una manifestazione spirituale che annuncia un cambiamento” mi disse un’amica che si trovava tra il pubblico. Nel frattempo continuo a digrignare moltissimo.
L’opera è anche un segno che collega due città e due istituzioni, come Triennale a Milano e MAXXI a Roma, dove è stato esposto l’altro identico esemplare che hai realizzato. A tuo avviso assumono le stesse valenze e lo stesso significato in entrambe le location?
Un po’ come per gli anagrammi, ciò che mi sembra maggiormente interessante sono le linee che collegano le parole piuttosto che le parole stesse.
Falena, Triennale Milano, foto Gianluca Di Ioia
Per te che senso ha concepire un lavoro di arte pubblica come Falena, un’opera che tutti possono vedere anche semplicemente passeggiando fuori dall’istituzione artistica? Sei interessato al pubblico per così dire “occasionale” che inciampa nelle opere d’arte?
Sono ossessionato dall’arte. Posseduto per certi versi. La prima mostra di cui conservo un ricordo vivido fu quella di Antonio Ligabue a Cencenighe. Avevo otto anni e mi sconvolse nel profondo cambiandomi radicalmente. Certamente sono interessato al pubblico che inciampa nell’arte. Ho sempre ricercato quell’inciampo sin dai primi lavori (performance che svolgevo nelle strade di fronte alle gallerie e musei che mi invitavano) e sempre lo farò.
Anche nelle tue opere più classicamente legate a materiali artistici sembra esserci un parallelo lavoro sonoro che le accompagna. Questa sensazione è probabilmente in me falsata dalla conoscenza dei tuoi riferimenti e dalla tua parallela ricerca in termini di musica, suono, rumore… è così?
La tua sensazione è assolutamente corretta anche, non solo, perché provengo da un ambiente che ha sempre tentato di ribadire in ogni modo che quel suono era “più che musica”. È una filosofia, un modo di vivere e una prospettiva sulla società contemporanea. In tutto e per tutto una forma di resistenza.
Falena, Triennale Milano, foto Gianluca Di Ioia
C’è un filo rosso che attraversa tutta la tua produzione e che ha a che fare con il tentativo di dare forma e immagine a energie primordiali: in questo la presenza animale è una costante che ti collega al principio stesso dell’arte, ovvero alla necessità dell’uomo primitivo di rappresentare nelle grotte gli animali prima ancora di se stesso…
Ritorno sempre agli animali perché ogni incontro con loro è la possibilità di un viaggio che attraversa il tempo e la realtà. Allo stesso modo ambisco a un’arte che scavalchi la lettura simbolica alla quale abbiamo relegato la nostra percezione di essa.
Nel suo saggio più famoso, George Kubler in un passaggio sintetizza la propria ricerca con questa affermazione: “Le forme del tempo sono le prede che noi vogliamo catturare”. Credo che questa espressione ben si presti alla tua sensibilità, e alle dinamiche primordiali che animano tanti dei tuoi lavori…
Mi sembra assolutamente pertinente. Quel che cerco di fare mio è un percorso a ritroso nei fossili dell’esperienza.
Il tuo rapporto con una progettualità estesa ti ha portato a concepire opere, spazi artistici, festival, suoni, azioni, oggetti di design… Eppure, anche nella dimensione più astratta del tuo lavoro, penso a quella sonora, c’è sempre una grande presenza fisica, materica, terrestre: alla luce di questa considerazione, da autore, come vedi lo sviluppo di tutti questi immaginari digitali che sembrano auspicare metaversi e varie espressioni delle AI?
Mi pare non dissimile a quando ci chiediamo se esista vita su un altro pianeta… è probabile e assolutamente interessante ma più interessante mi pare sia piuttosto che il concetto di vita riguarda intanto, qui e ora, ogni esistenza per come già la conosciamo.
Siamo partiti dalla forma della falce, come oggetto di design senza autore e strumento legato nei millenni all’attività agricola; c’è un oggetto di industrial design (magari tra quelli custoditi in Triennale) che per te è particolarmente carico di significato, o che semplicemente ti ha sedotto negli anni?
È troppo banale se ora, dopo la nostra conversazione, mi vengono in mente solo gli animali e i pesci di Enzo Mari?