Screenshot di una delle iterazioni iniziali dello spazio di gioco. Courtesy Fern Goldfarb-Ramallo

L’ignoto attraverso gioco e piacere: intervista a Fern Goldfarb-Ramallo su We Are Poems

29 luglio 2022

Per il secondo contributo della serie di interviste ai protagonisti della Game Collection Vol. 2, a cura di Pietro Righi Riva, presentata in occasione della 23ª Esposizione Internazionale, Giulia Trincardi ha intervistato Fern Goldfarb-Ramallo (game designer, Argentina).

Giocare è una pratica comune agli esseri umani e a diverse specie del regno animale, eppure rimane, al netto della relazione che può avere con l’apprendimento, una sorta di mistero. Non è un’attività di per sé produttiva (o non ha necessità di esserlo) e spesso riconfigura spazi e norme sociali in modi inaspettati. Perché giochiamo? È la domanda che la comunità accademica si è posta negli anni; ma se la risposta è stata a lungo “per divertimento,” filosofi più recenti suggeriscono che la ragione sia piuttosto la ricerca del piacere (un concetto più sfaccettato) e che il gioco non sia solo un’attività, ma potenzialmente un’attitudine alla realtà. 

Il gioco e il piacere hanno un potenziale sovversivo comune. Quando il colosso dell’arredamento IKEA prega le persone di smettere di organizzare partite segrete di nascondino da migliaia di partecipanti nei suoi negozi, non sta solo interrompendo uno “scherzo,” vuole anche impedire un utilizzo (e ri-significazione) dei suoi spazi che si fa beffe del consumo di prodotti previsto. Se giochiamo a nascondino in un grande magazzino, questo è ancora un grande magazzino? Se giochiamo a “strega comanda colore” in una centrale di polizia, come muta il significato di quel luogo?

La rivendicazione del piacere è, storicamente, un passaggio obbligato nel processo di liberazione e autodeterminazione di qualsiasi identità minoritaria: dall’affermazione del piacere sessuale non eteronormato (o cisnormato) in coincidenza con i primi movimenti femministi e con le proteste di Stonewall, fino alla rivendicazione, oggi, del piacere in senso lato come esplorazione dell’ignoto — del mondo, dell’altro e di sé.

Fern Goldfarb-Ramallo, foto ritratto © Kay Hues

Nel contesto della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, l’istituzione presenta, nella seconda edizione della Game Collection, a cura di Pietro Righi Riva, l’opera interattiva We Are Poems, progettata dall’artista e designer Fern Goldfarb-Ramallo, che trasporta il pubblico in un cosmo-comunità di particelle che manifestano un’esistenza di piacere condiviso con splendida noncuranza del giudizio altrui.

Abbiamo parlato con Fern Goldfarb-Ramallo di gioco, piacere, sovversione e dell’importanza dell’appartenere a una comunità che si prende cura delle sue parti.

Screenshot di una delle iterazioni iniziali dello spazio di gioco. Courtesy Fern Goldfarb-Ramallo

Ciao Fern, grazie per essere qui. Devo confessarti che mentre giocavo a We Are Poems, mi sono “persa” tra i suoi colori, suoni e modalità di interazione, come se fossi su un altro pianeta. Quindi, intanto: grazie! Avevi già una visione chiara del gioco quando hai iniziato a lavorarci? O è stato più un processo?

Decisamente un processo, ho creato diverse versioni del gioco. Avevo un’idea iniziale delle interazioni e dei materiali con cui volevo lavorare, e partendo da lì ho sperimentato diverse cose e diversi modi per navigare il mondo di gioco, ma il tutto ha iniziato a prendere forma davvero verso la fine. Tu forse hai giocato a una versione diversa da quella finale.

Sì! Ho notato che hai aggiunto più elementi musicali nell’ultima versione. 

Sì, ho decisamente aggiunto un aspetto musicale maggiore, che era stato in realtà parte del processo iniziale. Avevo in mente che tipo di sensazione volevo che lo spazio restituisse, volevo delle voci e cose simili. Mentre registravamo gli audio con lə miə amicə Eve, siamo finitə a improvvisare musica; avevo chiesto a Eve di parlare una lingua senza senso, per restituire un’idea di universalità, e ləi si è messə a cantare in quella stessa lingua inventata, restando “nel personaggio” — quelle canzoni erano così belle che alla fine ho deciso di renderle parte centrale del progetto.

La "cabina di registrazione" costruita da Fern Goldfarb-Ramallo in casa sua per registrare le voci di We Are Poems con Eve Hessas. Courtesy Fern Goldfarb-Ramallo

Le canzoni hanno qualcosa di misterioso, ascoltandole mi sembrava di conoscere quelle voci e quelle parole, eppure non sono reali. Mi sono chiesta “forse in una vita precedente vivevo su un altro pianeta e questa è la lingua che parlavo”...

Ahahah, sì, esatto, un po’ è quella la sensazione! In realtà Eve parla danese a un certo punto, o un’altra lingua scandinava.

Io ho vissuto in Danimarca! 

Vedi, allora forse è per quello che le riconosci!

We Are Poems è come un’eco potente di piacere che esplode in ogni angolo di un cosmo misterioso. Ma, per quanto le voci siano simil-umane, non c’è interazione con corpi umani. Cosa ti ha spinto a non includere corpi nel gioco?

Nelle mie opere gravito sempre verso interfacce ed esperienze giocose e tattili. Parte dell’idea che ha ispirato We Are Poems è una tecnologia chiamata powder toy, o falling sand game, che consiste in una serie di giochi e giocattoli basati su particelle simulate in tempo reale, per cui quando le si toccano emergono movimenti, reazioni e “chimica.” 

Animazione GIF registrata da powder toy, uno strumento open source di simulazione di particelle che l'autore ha usato come riferimento per le meccaniche del gioco. Courtesy Fern Goldfarb-Ramallo

Così ho preso alcuni degli elementi tecnici con cui sono create queste simulazioni e li ho applicati in senso astratto. Ma sin dall’inizio c’era comunque l’idea che le particelle fossero persone, in realtà. O, più che persone, i personaggi con cui si interagisce. Aggiungendo le voci, volevo creare la suggestione di interagire con una comunità, che si ispira ovviamente all’idea di comunità queer che ho incontrato a Berlino e all’idea di creare qualcosa di bello dall’oscurità e dal vuoto in cui viviamo come persone queer in una società eteronormativa. Per cui, in un certo senso, c’è interazione con i corpi, sono solo rappresentati in modo diverso, cosmico.

Inoltre, mi piaceva veicolare l’idea di entrare in contatto con una comunità che esiste già, a prescindere dal proprio sguardo e dal proprio giudizio. Si può sbirciare all’interno e sentire queste voci che bisbigliano e che si interrompono o cambiano quando si interagisce —pur restando ospiti. Si ha l’opportunità di vedere questa comunità, ma come osservatori esterni.

L’idea di corpi visualizzati in modo astratto e giocoso è interessante, perché la società attuale non riconosce a tutti i corpi e a tutte le identità il diritto di esperire la vita e il piacere allo stesso modo. Dunque è liberatorio contemplare una comunità senza i giudizi che esistono nella realtà.

Esatto, assolutamente. Una delle descrizioni iniziali del gioco includeva il concetto che queste entità “stanno bene anche senza di te, vivono la loro esistenza a prescindere dal tuo giudizio,” ecco perché è possibile interagirci, senza cambiarle.

Le modalità di interazione sono molto giocose. Non sparo proiettili, piuttosto sto solleticando una costellazione. E il gioco, come il piacere, può essere una pratica sovversiva. Il tema della Game Collection è “Unknown Unknowns”, pensi che la giocosità sia una giusta attitudine con cui affrontare ciò che non conosciamo?

Penso che sia molto naturale, e penso che ci sia qualcosa di molto centrante nel raggiungere uno stato mentale in cui si accetti di non sapere cosa succederà: è lì che emerge la relazione con il piacere, quando ci viene presentato qualcosa di sconosciuto che è però reattivo alle nostre azioni. Il piacere di esplorare un corpo o un sistema di particelle come quello di We Are Poems, significa sperimentare gesti e azioni e vedere quale reazione susciti cambiando il proprio comportamento, allo scopo di ottenere l’interazione migliore o più divertente.

È un processo molto naturale ed è il tipo di interazione che mi interessa creare nel mio lavoro, mi interessa sondare i suoi limiti. La cosa che mi piace dei computer non è tanto il fatto che mi permettano di produrre render iper realistici di un ambiente, ma il fatto che possano creare immagini in movimento che reagiscono in modo immediato: la velocità delle reazioni offre puntualmente nuove forme di gioco. È più facile per un sistema progettare forme discrete e distinte, ma a me interessa ottenere un senso più sperimentale di fluidità.

Pensi che il gioco possa essere addirittura uno strumento con cui affrontare ciò che ci spaventa?

In teoria sì, ma fammi sapere se scopri come farlo davvero. Perché viviamo in un’epoca pervasa dalla paura. Il gioco è un modo per confrontarci con ciò che non conosciamo, ma allo stesso tempo mi chiedo quanto gioco servirebbe per risolvere i problemi che ci circondano, o le cose che sono incerte per definizione. Personalmente, se devo affrontare qualcosa che mi spaventa, più del gioco mi aiuta il ricordare di mantenere uno stato di apertura: anche se non ho certezza dei risultati ai quali arriverò, cerco di calmare la parte di me che va dritta allo scenario peggiore. Quindi, davvero fammi sapere se scopri come implementare il gioco su larga scala in questo senso!

Sarebbe sicuramente bello scoprirlo.

Spero davvero che succeda un giorno.

Cosa significa “ignoto” per te, come artista?

Mi confronto più con l’ignoto che con il noto quando creo, quando lavoro e cerco di esprimere qualcosa attraverso qualsiasi tipo di supporto mediatico. In quei momenti, quando cerco di riversare le sensazioni che provo o le mie esperienze di vita in una canzone o in un’immagine, imparo ad accogliere, ad accettare l’ignoto. Il momento in cui chiudo le porte a quella cosa, il processo creativo non funziona più.

È importante avere una relazione sana con il vuoto che ognuno di noi porta con sé, insomma?

L’ignoto è qualcosa che bisogna accogliere quando si è artista: a un certo punto, bisogna farlo per forza.

Hai citato prima la persona con cui hai composto i suoni e le canzoni di We Are Poems, Eve Hessas. Puoi raccontarmi come è iniziata la collaborazione tra di voi?

Io ed Eve abbiamo instaurato un rapporto di amicizia molto stretto a Berlino e, sin dall’inizio, dato che era un progetto basato sulla nostra comunità queer, sapevo di voler coinvolgere una persona che ne facesse parte. Così Eve mi ha dato supporto nel registrare le voci; non è unə professionista, ma non mi interessava che lo fosse: volevo coinvolgere una persona che non facesse questo di mestiere, ma che approcciasse il progetto proprio con giocosità. 

Da tempo facciamo improvvisazione musicale insieme tutte le settimane, mettendoci in uno stato di gioco che mi ha anche aiutato a recuperare il senso di ciò che faccio. Dopo aver pubblicato un progetto importante anni fa, ho fatto fatica a ritrovare quello spirito di gioco, perché ero in pieno burnout. Quando ho iniziato a fare musica, dopo la pandemia, o diciamo almeno dopo il 2020, quell’elemento di giocosità è tornato e ho capito che c’erano altre forme mediali che volevo esplorare ed Eve era lì con me, dunque la connessione è stata naturale per questo progetto.

Hai scelto di dare istruzioni minime a chi gioca. Vediamo la tua mano all’inizio, poi il gioco è pura esplorazione. Il processo di scoperta è intrinseco all’esperienza che vuoi offrire?

Sì, assolutamente. In ogni opera che creo, mi piace restituire un senso di universalità, dare istruzioni pittoriche anziché basate sul linguaggio. Anche il modo in cui spiego i comandi non è casuale, ma molto intenzionale: ci sono colori, c’è una mano che non è una mano qualsiasi ma una mano con le unghie smaltate, che racconta qualcosa sulla persona che sta invitando a giocare. In qualche modo, anche questo elemento contribuisce a stabilire il tono dell’opera e di cosa si può aspettare la persona che decide di giocare a We Are Poems.

Video di una delle iterazioni iniziali dello spazio di gioco. Courtesy Fern Goldfarb-Ramallo

L’estetica e le modalità di interazione, in generale, sono anche in parte ispirate a quelle presenti nel primo volume della Game Collection di Triennale, anche in quel caso le interazioni delle opere erano minime. Quindi quando ho ricevuto l’invito a partecipare alla seconda Game Collection, sapevo che non avrebbe avuto senso inserire parti testuali per spiegare i comandi. Le meccaniche di We Are Poems sono comunque complesse, in un certo senso, ma sono accessibili. Anziché chiedere a chi gioca di imparare regole specifiche, mi interessa molto di più che l’interazione sia accessibile e dunque invitante per più persone possibile.

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