Piergiorgio Caserini (ZERO, HYPERLOCAL) e Tommaso Naccari, Francesco Fusaro e Ariam Tekle ci raccontano i temi dei prossimi Hyperlocal talks, in Triennale durante Milano Arch Week 2024.
Nell’Invenzione della Terra il geografo Franco Farinelli ripercorre la storia, i miti e le narrazioni che nel tempo hanno creato “modelli di mondo”, ovvero strumenti interpretativi che configurano lo spazio abitato. Tra tutti, il modello cartografico ricopre un posto d’onore, poiché nella riduzione del mondo a carta, a misura, segno e limite, si giocano notoriamente le maniere dell’orientamento e delle strategie culturali d’interpretazione del mondo. Eppure, la mappa cartografica non è l’unica complessione tecnica e culturale in grado di "inventare la Terra", di conformare un modello di mondo – che è tutto sommato un modello d’azione, d’impalcatura di un pensiero. Oltre all'esistenza di metodi di mappatura altri rispetto alla cartografia ci sono modi di rappresentazione dello spazio che si sostengono su princìpi non necessariamente dettati da un’idea di misura. Esistono, per esempio, modelli interpretativi del paesaggio che attingono alla narrazione, al mito o al racconto, e che a partire da una precisa località spaziale osservano la figura della Terra e del mondo da un'altra prospettiva.
Questo breve preambolo introduce la vocazione di Hyperlocal: la possibilità di immaginare una geografia capace di confrontarsi con l’attuale stato del mondo.
Se l’idea del globo così come espressa da Farinelli ribalta i canoni della cartografia, poiché non si basa più sull’idea della tabula rasa sulla quale inscrivere porzioni conoscibili di spazio, decretandone quindi la finitudine, bisogna comunque considerare i rapporti che lo spazio locale intrattiene con il globo. Hyperlocal comincia con questa riflessione. Domandandosi, a partire dalle forme più elementari della città, i quartieri, come si conformi una visione di spazio urbano, ovvero del locale, attraverso tendenze ed espressioni culturali globali. In questo modo, guarda alle eccezioni culturali di certi quartieri – o di certi territori – considerandone la storia, i viaggi, i litorali e gli orizzonti che le fanno da propulsore, che si concretizzano e vivono nelle scene e nelle comunità locali. Ci sono allora, per esempio, le comunità transnazionali e diasporiche il cui confronto espressivo mescola fenomeni culturali locali e altri distanti migliaia di chilometri, per cui si ha l’impressione, in certi contesti felici, di vivere un quartiere come se fosse un’altra città. Ci sono luoghi e monumenti che hanno contribuito a realizzare e ad attestare questi ponti, per cui tutta una geografia culturale, sviluppatasi e nata in luoghi specifici e circoscritti, trova accessi e possibilità di sedimentazione e crescita altrove. Ci sono anche oggetti e monumenti, come certi stadi o certi fiumi, ma anche certe istituzioni, attorno e assieme alle quali “mondi” che vivono a migliaia di chilometri gli uni dagli altri si ritrovano invece aggrovigliati e in prossimità. Sono momenti culturali in cui un mondo si spalanca dove non ce lo si aspetterebbe, dove uno spazio locale, minuto, assume un’ampiezza disattesa.
La seconda edizione di Hyperlocal Talks – che si tiene in Triennale Milano durante Arch Week 2024 – riguarda questi fenomeni. Se nel 2023 le conversazioni si sono svolte attorno a gruppi d’accentramento culturali (dai magazine, alla poesia, fino allo sport), alla nascita della Dubstep a Croydon, al ponte sonoro di scene post club tra Milano e il Sud America di Dona Valentina, o al Pigneto come quartiere d’elezione musical con Pescheria e Tropicantesimo, quest’anno i talk tratteranno di quartieri e territori specifici, e di come questi si siano configurati all'interno di un bandolo di rapporti che mescola luoghi e immaginari distanti tra loro. Di seguito i curatori dei tre talk descrivono le ragioni che sottendono la scelta delle loro storie.
La Comunidad di La Spezia
“Comunidad" è un termine neutro che, già di per sé, racconta un mondo infinito. Per chi è cresciuto nei dintorni di La Spezia, ovvero lungo tutto il tragitto che rende il mar Ligure un broncio che rispecchia l'anima di chi la vive, quella della “Comunidad” è una sorta di leggenda. Nella terra del mugugno, c'è una piazza, una comunità, un quartiere, che ha nelle sue radici la musica, la festa e una lingua che mischia lo slang dialettale giovanile (parole come fré, fante) allo spagnolo.
La prima volta che ho messo piede in piazza Brin, in pieno centro a La Spezia, non ci credevo. Per un certo periodo di tempo si è addirittura parlato di scena dembow italiana, perché la musica che usciva da quelle casse aveva superato gli alti palazzi che chiudono la piazza: era arrivata a Radio Deejay, nelle playlist di Spotify, a Milano, quella meta fatta di odio e amore che ti priva del mare ma sembra donarti delle possibilità.
Con Samuel "Heron" Costa, artista, musicista e fotografo, e Francois Roderik Coudjoe Arauz, il talk indagherà la comunità dominicana più grande d'Europa e cosa significhi il termine "cultura". La cultura nasce dal mescolarsi di diverse influenze e ciò che mi ha fatto capire meglio questo concetto sono state proprio quelle quattro casse che spingono i ritmi che per la nostra tradizione sono – a volte – storti. Il primo ha da sempre infilato nella sua musica le influenze che volente o nolente lo circondavano, portando nella scena rap una ventata di novità che sembrava in antitesi col genere. Il secondo, invece, è uno dei personaggi più interessanti di questa nuova scena, che sta crescendo, si sta formando e inizia - dunque - a professionalizzarsi. Ascoltare la testimonianza di chi aiuta i ragazzi a esprimersi con la propria musica per prendersi non solo la piazza, ma anche la propria città, poi la propria regione, fino a scendere lungo tutto lo Stivale, fa luce sul modo in cui una cultura si sedimenta, si stabilizza e poi diventa di tutti e per tutti.
Foto di Samuel "Heron" Costa
Foto di Samuel "Heron" Costa
Foto di Samuel "Heron" Costa
Da via Torino alla Second Summer of Love: Fiorucci tra musica e beat
La storia del marchio Fiorucci comincia col marchio di moda, e prosegue negli ambiti dell’arte contemporanea e della musica. Sono note le performance della metà degli anni Settanta nello storico store di via Torino a Milano, con la collana Nova Musicha assieme a Demetrio Stratos, Franco Battiato, Walter Marchetti, o con Keith Haring nello store di San Babila. Il Centro di Milano, con l’innovazione dello store di Fiorucci – che presagisce il concept store odierno – diventa un punto di attrazione internazionale, specialmente per gli ambienti della cultura anglosassone. Anche quando Fiorucci apre a New York negli anni Settanta, il negozio sulla East 59th Street diviene subito il ritrovo diurno per amanti della moda, hipster e VIP, ribaltando però il paradigma che aveva reso Fiorucci popolare nella sua Milano: attirare gli italiani interessati alle tendenze della moda provenienti dal Regno Unito.
Da quel momento, l'influenza di Fiorucci si muove come un fiume carsico nelle sottoculture americane e britanniche, tanto che nel 1999 l'artista visivo Mark Leckey decide di intitolare proprio al marchio milanese il suo corto d'arte – ormai oggetto di culto – Fiorucci Made Me Hardcore: viaggio nostalgico attraverso le sottoculture inglesi dal Northern Soul alla Second Summer of Love. Gli outfit colorati disegnati da Fiorucci negli anni d'oro della sua carriera si saldano così definitivamente all'immaginario della generazione Acid House britannica.
Questa storia racconta di un impatto dell’immaginario, di un’influenza, che da un epicentro elettivo, l’iconico store in via Torino a Milano, e da un rapporto oltremodo peculiare e inedito con le arti, si irraggia nel mondo musicale italiano e internazionale.
Archivio Atelier Mendini
Il primo club di world music in Italia: lo Zimba a Milano
La presenza della comunità eritrea a Milano ha una storia lunga diversi decenni, che si snoda tra quartieri e luoghi, in particolare attraverso il cibo e la musica, tra gli elementi più caratterizzanti che definiscono il transnazionalismo eritreo degli ultimi cinquant’anni nel capoluogo lombardo. È in questo senso che va riconosciuta un’importanza cruciale alla musica che, qui a Milano, tra gli anni Ottanta e Novanta è stata un collante tra le diaspore africane, contribuendo alla popolarizzazione e alla scoperta dei generi, di quel che si conosceva come world music, all’interno della città e in tutta Italia. La storia che qui ci interessa comincia con un posto specifico, lo Zimba: uno dei luoghi più emblematici per i legami musicali tra l'Africa e l'Italia, che ha visto la presenza di icone, musicisti e attivisti internazionali, uno fra tutti Fela Kuti. Guardando a quegli anni, lo Zimba emerge infatti come fulcro culturale, quel che oggi chiameremmo hub, nella Milano degli anni Ottanta. Fu capace di abbracciare influenze esterne fino ad allora poco comuni in Italia, se non propriamente sconosciute, quali l’afrobeat, il reggae e il latino-caraibico. Ma, cosa ancora più importante, assieme allo scambio e all’incontro di sonorità delle diverse terre d’origine, lo Zimba fu un luogo di ritrovo per le comunità delle diaspore africane già radicate nella città. A partire dagli anni Settanta Porta Venezia si sviluppa come quartiere eritreo – non per niente rinominata dagli eritrei milanesi “La Piccola Asmara” –, cominciando quel processo che vede l’apertura di diverse attività commerciali, come ristoranti e bar, che contribuiscono a promuoverne la cultura. Negli stessi termini va considerato l’ex oratorio di via Kramer, che fu punto di riferimento sia per eritrei ed etiopi di prima immigrazione che per le seconde generazioni, dove si sperimentarono i primi dj set di hip hop.