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Le istituzioni culturali come terreni di prova: Aric Chen e i progetti pionieristici

19 ottobre 2022

Una conversazione con il direttore dello Het Nieuwe Instituut Aric Chen sulla commissione del padiglione olandese alla 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano e sul progetto pionieristico Zoöp.

Il curatore di architettura Aric Chen descrive le sue speranze e visioni per le istituzioni culturali. Attraverso il progetto proposto per il padiglione dei Paesi Bassi nell’ambito della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano, Chen illustra gli sforzi comuni nel rintracciare i punti di contatto tra esseri umani e non umani, tematica che è anche il cuore di Zoöp, progetto all’avanguardia dello Het Nieuwe Instituut che include voci non umane nei processi decisionali delle istituzioni culturali. In questa intervista Chen enfatizza anche il potenziale dei musei come campi di sperimentazioni sociali per soluzioni innovative e collettive in grado di rivolgersi alla crisi globale attuale, introducendo il concetto di enacted speculations (speculazioni attuate) e trattando di pratiche curatoriali e storie architettoniche lontane dall’Occidente.

Chicken Mobile di Harald den Breejen e Sjoerd van Leeuwen, parte di Have We Met?

KOOZ: Ci descrivi il padiglione dei Paesi Bassi dal titolo Have We Met? Humans and Non-humans on Common ground (Ci siamo incontrati? Umani e non umani su un terreno comune)? In che modo la tecnologia e i dati alla base di strumenti collaborativi possono essere usati per “ricalibrare la relazione tra esseri umani e non” nella pratica e nella ricerca del design?

Aric Chen: Le premesse alla base del progetto presentato nel padiglione dei Paesi Bassi alla 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano, curato dai miei colleghi Klaas Kuitenbrouwer ed Ellen Zoete, riguardano il bisogno di superare, in quanto esseri umani, una visione antropocentrica della realtà che ci ha portato a essere dove siamo oggi; non si può proseguire con una linea di pensiero che colloca l’essere umano in cima alla catena alimentare e il resto delle risorse del Pianeta a sua disposizione. C’è bisogno di considerare la Terra in ottica di collaborazione tra piante, animali, microbi e altre forme di vita. È questo il principio alla base del progetto Zoöp, sviluppato da Klaas e altri, che pone interessi e bisogni delle forme di vita non umane all’interno dei  processi organizzativi e decisionali dell’uomo, con l’obiettivo di includere anche pratiche ecologicamente rigenerative. In Triennale abbiamo applicato questo concetto per analizzare tre diversi contesti urbani, rurali e marittimi, e abbiamo commissionato la progettazione di strumenti, inclusi quelli che utilizzano l’intelligenza artificiale, che potessero raccogliere dati e anche disegnare nuove reti relazionali in loco. In questo senso, anche la tecnologia diviene un alleato. 

Have We Met?, photo: Cristiano Corte, courtesy Het Nieuwe Instituut

Perché i designer dovrebbero estendere la propria ricerca ad altre forme di vita e interessarsi alle relazioni interspecie?

Il design è una pratica che si è diffusa in modi diversi nel corso degli anni. Se chiedessi a cento persone diverse che cos’è il design, otterrei cento risposte differenti. Fondamentalmente credo che riguardi la creatività, la negoziazione e lo sviluppo di realtà, sia che si tratti di oggetti, spazi o sistemi, sia che si parli di interazioni o speculazioni.  Siamo abituati a pensare in maniera prettamente antropocentrica, ma questa visione è  limitata e limitante – per non cedere al catastrofismo. Questo punto di vista è, tutto sommato, di recente invenzione, e va messo in discussione e confrontato con le altre realtà che ci circondano, con cui dobbiamo (re)imparare a interagire.

Il padiglione dei Paesi Bassi ha vinto il primo premio come miglior progetto nell’ambito dei Bee Awards. Puoi parlarci di questa esperienza a livello curatoriale; i temi in essa affrontati richiamano alcuni vostri progetti in corso o futuri?

Penso che per Klaas ed Ellen sia stata un’occasione per espandere il lavoro svolto nell’ambito del progetto Zoöp, mettendolo alla prova in un contesto pubblico. Zoöp è un modello organizzativo che dà voce a forme di vita non umane. È cominciato diversi anni fa come progetto di ricerca speculativa e si è sviluppato ben oltre i suoi primi intenti. Ora esistono una Zoönomic Foundation e uno Zoönomic Institute, enti indipendenti e no profit che hanno nominato nel proprio consiglio di amministrazione un “referente per le forme di vita" che prende parte ai processi decisionali su questioni di rilevanza ecologica. Il metodo è ben preciso, ed è stato progettato così che possa essere adattabile a ogni forma di organizzazione, piccola o grande che sia, anche a città o a regioni intere. Circa venti enti, soprattutto in Europa, stanno cercando di adottare il modello Zoöp. In questo senso, dunque, il padiglione dei Paesi Bassi alla 23ª Esposizione Internazionale  riflette molto la progettualità recente e futura dello Het Nieuwe Instituut. Siamo stati fortunati ad avere molti collaboratori – designer, artisti, scienziati, altre organizzazioni. Alcuni dei progetti in mostra esistevano già, come la stia mobile per il pollame della fattoria rigenerativa Bodemzicht nei Paesi Bassi, mentre altri sono stati commissionati appositamente, come il sistema di scanning di dati 3D della Royal Academy of Art a L’Aia. Oltre al lavoro di ricerca, il padiglione trasmette anche l’attenzione dello Het Nieuwe Instituut nel presentarsi come centro di discussione e dibattito ma soprattutto come terreno sperimentale dove le idee possono essere messe in atto. A noi, in altre parole, importa diventare uno Zoöp più che svilupparne il modello, come è di fatto accaduto lo scorso aprile.

Have We Met?, photo: Cristiano Corte, courtesy Het Nieuwe Instituut.

Il tuo focus sull’azione sembra davvero riflettere il momento attuale e questo senso di urgenza nell’affrontare le diverse crisi globali. Usi spesso il termine enacted speculations (speculazioni attuate), un’espressione molto interessante.

Il termine risponde alla tendenza di molte istituzioni culturali di affrontare le diverse urgenze della contemporaneità, crisi ambientali e sociali, ponendosi domande e richiamando il proprio pubblico all’azione in maniera spesso vaga. Tutto ciò è importante, ma si può fare di più? Sappiamo di dover radicalmente ripensare la nostra realtà, e ci viene bene discutere, dibattere e mettere in mostra i nostri propositi per cambiare l’ordine delle cose. Le idee non mancano di certo, allora perché non metterle in pratica? Le istituzioni culturali possono diventare palestre sociali? Da qui l’idea di enacted speculations, cioè di speculare su come le cose potrebbero cambiare partendo da noi, perché è in nostro potere. Questo concetto supera i cambiamenti che vengono apportati nel "mondo reale" per utilizzare realmente le capacità delle istituzioni culturali di pensare in maniera più diretta: per mostrare come potrebbero apparire e come potrebbero funzionare.

Fattoria rigenerativa Bodemzicht, parte della mostra In Search of the Pluriverse, Het Nieuwe Instituut, 2022, photo: Bodemzicht.

Diventare uno Zoöp ne è un esempio. Un altro esempio riguarda un progetto che speriamo di poter lanciare presto e che chiamiamo The New Store. Riguarderà lo shop dello Het Nieuwe Instituut, la cui attrazione non saranno più le tazze, i portachiavi, le tote bag e gli ombrelli, ma la messa in discussione dell’esistenza di un consumo rigenerativo. Questa idea è stata ovviamente ispirata dai tanti designer che, attraverso il proprio atto creativo e produttivo, si sono interrogati sulla complicità col sistema estrattivo e di sfruttamento dell’ambiente, con le sue conseguenze ecologiche e sociali. Questi professionisti stanno ripensando le definizioni di consumo e produzione, domandandosi in che modo è possibile progettare nuove forme di scambio e nuove modalità di assegnazione del valore. Se si guarda a qualsiasi progetto finale di laurea in Design, qualsiasi Biennale o ad altri contesti analoghi, ci si accorge che tanti designer affrontano la questione, prendendo spunto dagli ambiti più diversi, dall'economia circolare e “a ciambella” al biodesign, dalle blockchain ai modelli di scambio reciproco. Lavorando con la società di consulenza al dettaglio The Seeking State, Het Nieuwe Instituut prevede di sviluppare alcuni di questi progetti nei propri "prodotti" (tra virgolette perché potrebbero non essere sempre oggetti o servizi come li pensiamo normalmente). Una volta che si interviene sulla natura dello scambio, modificandola, si cambia anche lo spazio di scambio e le reti urbane, sociali, logistiche e di altro tipo che lo circondano. Queste implicazioni saranno al centro delle tematiche della Biennale Internazionale di Architettura di Rotterdam.

Ovviamente alcuni di questi ragionamenti potranno sembrare strani all’inizio. Devo ammettere che l’idea di avere un “referente per le forme di vita” attraverso il progetto Zoöp sembrava un’assurdità anche a me in un primo momento. In questo però, spero, risiede la bellezza della speculazione attuata. Ovvero il mettere alla prova lo scarto tra le cose come sono e come potrebbero essere. Il cambiamento risulta sempre strano inizialmente, non è “normale”. Ma in un momento storico in cui siamo di fronte a nuove condizioni di normalità con cui dovremo fare i conti, dalle condizioni metereologiche estreme ai rifugiati climatici, dalle lotte per l’acqua alle pandemie, non possiamo provare ad avere una “nuova normalità” dai caratteri positivi?

Fattoria rigenerativa Bodemzicht, parte della mostra In Search of the Pluriverse, Het Nieuwe Instituut, 2022, photo: Bodemzicht.

L'attribuzione di valore gioca un ruolo importante nelle istituzioni culturali. Non si tratta solo di attribuire valore a opere d'arte o a progetti materiali o immateriali, ma anche ad argomenti di ricerca. Come accennato in precedenza, ci sono squilibri nelle crisi globali che hanno un impatto sulla curatela e sul design.

Questo è un punto di vista interessante sulle modalità attraverso le quali la curatela, in molti modi, che ci piaccia o no, nel bene e nel male, riguardi la stima di un valore. Spesso il valore intellettuale viene tradotto in valore di mercato, che è il motivo per cui così tante gallerie amano vedere i propri artisti o designer esporre nei musei. Nella mia precedente carriera come curatore della  fiera di design da collezione Design Miami e al M+, dove stavo costruendo una nuova collezione museale, è stato affascinante osservare questo lavoro da entrambi i lati (anche se non in contemporanea, ovviamente!). 

Personalmente, non sono mai stato interessato alla pratica curatoriale in sé, quanto alle possibilità che la curatela offre in diversi contesti, come ai diversi tipi di valore che porta con sé e che attribuisce a seconda delle circostanze, lavorando con obiettivi diversi. Immagino che questo spieghi in parte la mia carriera forse poco lineare come curatore in musei, biennali, rassegne di design, fiere, e come docente. Ognuno di questi ambiti è diverso, caratterizzato dalle proprie esigenze, aspettative, e anche possibilità.

Vivere in Cina e a Hong Kong per tredici anni è stato formativo. Quando mi sono trasferito per la prima volta nel 2008 non esisteva un concetto ben definito di curatela. La parola cinese per “curatore”, infatti, designava più che altro un organizzatore o planner, implicando che il ruolo fosse visto puramente da un punto di vista pratico e logistico. Le cose sono drasticamente cambiate e ora il discorso sulla curatela è ben sviluppato, con molti professionisti brillanti. Ho davvero apprezzato questo processo di apertura perché per me non si trattava di applicare gli standard e le strutture di curatela occidentali in Cina, quanto piuttosto di capire il contesto in cui mi trovavo e vedere quali modelli di curatela avrebbero avuto senso lì.

Fattoria rigenerativa Bodemzicht, parte della mostra In Search of the Pluriverse, Het Nieuwe Instituut, 2022, photo: Bodemzicht.

Nell’ambito della Beijing Design Week, uno dei principali progetti a cui ho lavorato, nel 2011 e nel 2012, è stato il rilancio di un importante quartiere storico proprio accanto a piazza Tienanmen, chiamato Dashilar. Ho cercato di utilizzare la curatela come modalità per  rendere il quartiere più socialmente sostenibile di fronte a una riqualificazione che non era possibile impedire – l'area era in cattive condizioni e molti residenti volevano trasferirsi – ma che e stata rallentata e reindirizzata a beneficio della comunità esistente, della sua storia e cultura. Guardando indietro, questa è stata la prima volta in cui ho impiegato tecniche curatoriali a livello sperimentale e pratico.

Ho anche amato il lavoro curatoriale più propriamente detto, come la costruzione della collezione di design e architettura allo  M+ a Hong Kong, dove ho cercato di creare una collezione che potesse raccontare molte delle narrazioni meno conosciute in Asia dell'architettura e del design del XX e XXI secolo, rivisitando quelle globali più note dal  punto di vista privilegiato nella regione. Si trattava di ricentrare della storia del design e dell'architettura.

Mi sono anche divertito molto a insegnare. Uno dei corsi che ho tenuto alla Tongji University di Shanghai si chiamava Reverse Curating e trattava le modalità possibili di decodifica del boom edilizio dei musei in Cina. Negli ultimi dieci o quindici anni, migliaia e migliaia di nuovi musei sono stati costruiti nel Paese. Queste istituzioni sono solitamente guidate da agende economiche, politiche, immobiliari e burocratiche, che lasciano in secondo piano l’effettiva funzione culturale e portano alla proliferazione di numerosi edifici museali vuoti, sottoutilizzati o mal utilizzati, dalle architetture audaci (e difficili), destinati a restare inattivi. Il mio corso, dunque, trattava questo fenomeno come una sorta di condizione preesistente cercando di trovare, a posteriori, uno scopo sociale e culturale, radicato nel contesto e in altre specificità.

Questo porta naturalmente alla prossima domanda sul tuo interesse per le pratiche collaborative, anche di fronte alle attuali crisi globali. Sembra che affronterai questo argomento alla prossima London Design Biennale. Puoi dirci di più a riguardo?

In qualità di direttore artistico della prossima London Design Biennale, lo Het Nieuwe Instituut porterà senz’altro attenzione verso i temi trattati finora e  sulle diverse tipologie di approcci curatoriali. Quando gli organizzatori della Biennale si sono inizialmente avvicinati all’Istituto , è stato motivo di grande trepidazione e onore. Come direttore, non ero sicuro di quanto fosse interessante proporre un tema e chiedere ai vari padiglioni nazionali di declinarlo a proprio piacimento. Mi sono chiesto se fosse possibile giocare con questo formato. Questo sì che potrebbe diventare interessante.

Considerando come le sfide globali richiedono una cooperazione totale, anche la globalizzazione come la conosciamo dagli anni novanta sta venendo meno, mi sono chiesto se fosse possibile usare il modello dei padiglioni nazionali alla London Design Biennale per creare un panorama geopolitico alternativo, guidato non da dinamiche di conflitto, competizione e sfruttamento, ma di collaborazione. In altre parole, è possibile proporre un tema di collaborazione e, anziché domandare ai padiglioni di prendervi parte individualmente, proporre invece di collaborare tra loro?

Alla fine, ho pensato a The Global Game: Remapping Collaboration, e, insieme allo studio di gaming Play the City, stiamo effettivamente realizzando un gioco per il web che fa riferimento al Buckminster Fuller's World Game degli anni sessanta. Facilita i padiglioni nel ritrovarsi e nel dar luogo a sinergie per la Biennale: ognuno crea il proprio profilo, elenca i propri interessi, quali sono i temi di ricerca e così via. Ovviamente non è obbligatorio, ma spero che tutti vogliano collaborare. Mi piacerebbe vederne uscire padiglioni congiunti, o padiglioni distribuiti o decentrati, arcipelaghi di padiglioni. È un esperimento, un banco di prova.

Aric Chen, 2021, photo Marwan Magroun

Aric Chen è Direttore Generale e Artistico dello Het Nieuwe Instituut, Museo Nazionale e Istituto Olandese per Architettura, Design e Cultura digitale di Rotterdam. Nato in America, Chen è stato in precedenza fondatore, professore e direttore del Curatorial Lab presso il College of Design & Innovation della Tongji University di Shanghai; Direttore Curatoriale delle fiere Design Miami di Miami Beach e Basilea; Direttore Creativo della Beijing Design Week; Lead Curator per Design e Architettura presso M+, Hong Kong. Ha curato decine di mostre e progetti in tutto il mondo, ha fatto parte di numerosi consigli e giurie e ha lavorato come consulente per la UABB Shenzhen Biennale of Architecture\Urbanism, London Design Biennale, Cooper-Hewitt Design Triennial (New York), e Gwangju Design Biennale. È autore di Brazil Modern (Monacelli, 2016) e ha collaborato con “The New York Times”, “Wallpaper*”, “Architectural Record” e altre testate.

Crediti

Traduzione in italiano di Cultural Institutions as Testing Grounds: Aric Chen and the Power of Enacted Speculations pubblicato in inglese su "KoozArch magazine".

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