David Plaisant – scrittore, podcaster e conduttore del nostro podcast From The Moon – incontra il designer giapponese-argentino Adam Nathaniel Furman e lo storico dell’architettura inglese Joshua Mardell, che hanno appena presentato – durante Milano Arch Week 2023 – il loro libro Queer Spaces: An Atlas of LGBTQIA+ Places and Stories.
(Di seguito una versione abbreviata della conversazione).
Queer Spaces: An Atlas of LGBTQIA+ Places and Stories, courtesy gli autori
DP: Cominciamo dal principio. C’è un’idea iniziale che ha portato allo sviluppo di Queer Spaces? Qual è la storia all’origine di questo libro?
ANF: Da un punto di vista personale, posso dire che l’inizio della mia carriera è stato piuttosto sgradevole. Lo è stato per il modo in cui sono stato accolto e trattato quando ho cercato di parlare di questo genere di argomenti. Però adesso per fortuna c’è stato un cambiamento enorme. Dopo l’uscita sulla rivista “The Architectural Review” del mio controverso articolo intitolato Outrage: the prejudice against queer aesthetics sono stato contattato dal RIBA (Royal Institute of British Architects) e dalla sua divisione editoriale con l’idea di scrivere un libro. Penso che l’Istituto fosse alla ricerca di contenuti più inclusivi e dopo qualche riflessione siamo giunti alla conclusione che avremmo realizzato un libro sul queer in architettura. Volevamo un prodotto che potesse diventare una risorsa accessibile sia per gli studenti di architettura sia per un pubblico più ampio: una ricerca storica capace di introdurre il vasto mondo dei luoghi queer, un universo completamente sconosciuto e nascosto.
© Dell & Wainwright, RIBA Collections
DP: Josh, in quanto storico dell’architettura, forse ora puoi intervenire tu. Durante l’incontro in Triennale hai parlato dell’importanza della storiografia nel tuo approccio. Vuoi ricordarci alcune delle conversazioni che hai avuto con Adam durante le prime fasi del progetto?
JM: Per me è molto importante cercare di ridimensionare le figure “canonizzate”, e non mi riferisco soltanto alle persone queer, ma in qualche modo a tutti coloro che sono stati emarginati da chi ha il potere. Pensiamo ad esempio agli architetti dei CIAM (Congressi internazionali di architettura moderna) o a quelli successivi come Alison e Peter Smithson; erano figure che si facevano propaganda da sé, personaggi arroganti entrati quasi di prepotenza nei canoni della storiografia travolgendo tutti gli altri.
ANF: Erano quasi delle divinità, in sostanza.
JM: Sì, “divinità” è una buona parola per descriverli. Secondo me spesso gli storici si sono lasciati ingannare dal comportamento di questi protagonisti del passato e ne sono stati in qualche modo sedotti. Ho dedicato la mia tesi di dottorato a tre architetti che per molti versi non appartenevano al XIX secolo e che furono bullizzati dalle archistar dell’epoca perché erano un po’ “diversi”, nel loro caso erano considerati “troppo tradizionali” rispetto all’equivalente dell’avanguardia in piena epoca vittoriana. Io sono cresciuto a Letchworth Garden City, in un quartiere di case popolari, e non c’entravo nulla con quell’ambiente. In seguito ho provato di nuovo la stessa sensazione di essere un “outsider” quando ho cominciato a esplorare la storia dell’architettura e andavo sempre alla ricerca di tracce storiche di queerness nell’ambiente che mi circondava, proprio come avevo fatto da ragazzo.
© Kaoru Yamada
DP: Quindi la tua carriera accademica ti ha fatto comprendere il potere della storiografia, ma come hai espresso tutto questo in termini di casi di studio [di spazi queer] nel libro?
JM: La parte britannica del libro è opera mia. Ad esempio, il caso della coppia lesbica Sylvia Townsend Warner e Valentine Ackland nell’Inghilterra prebellica. Ho voluto inserirla perché rappresenta quella che è stata l’altra via verso il modernismo: molto diversa da ciò che sostenevano gli storici come Colin St John “Sandy” Wilson, il quale in linea con la “tradizione dell’architettura moderna” si riferiva agli scandinavi come Alvar Aalto, Eero Saarinen, etc. In realtà un filone diverso esiste, un filone più queer, e per individuarlo il lavoro di Elizabeth Darling è stato particolarmente importante per me, così come quello di Jane Stevenson, che ha voluto inserire nel libro un suo scritto. Un altro caso che mi sta a cuore a livello personale è il Black Lesbian & Gay Centre, aperto nel Sud di Londra negli anni Ottanta.
© Ruhul Abdin and Maruf Arefin Mim
© Ruhul Abdin and Maruf Arefin Mim
DP: Adam, adesso è il momento di sapere qual è stata la tua parte: tu ti sei concentrato di più sull’Europa occidentale e sul Nord America, giusto?
ANF: Sapevo che nella storia dell’America centrale e meridionale le comunità queer erano state incredibilmente vivaci ed ero sconcertato dal fatto che non se ne parlasse affatto a livello internazionale. Ho dei contatti in quel mondo e grazie a loro ho scoperto numerosi casi di studio davvero fantastici, e avremmo potuto aggiungerne molti altri. Questi esempi di spazi sono altrettanto interessanti di quelli europei o americani; luoghi come Coppelia a L’Avana, la Catedral de Santiago a Managua e l’Archivio della Memoria Trans a Buenos Aires.
© Category Is Books
DP: Durante l’incontro in Triennale, Adam ha raccontato che quando frequentava la scuola di architettura percepiva una “riluttanza a discutere di estetica”. Pensi che uno degli scopi fondamentali del libro sia modificare quel modo egemonico di guardare all’architettura e alla storia dell’architettura?
ANF: Innanzitutto, non l’ho solo percepita, era assolutamente reale. Studiando mi sono subito reso conto che molti architetti passano l’intera carriera a cercare di far finta che l’architettura riguardi tutto tranne l’estetica.
Con il libro volevamo affermare che l’estetica e la cultura del gusto sono incredibilmente importanti. Anzi, direi che sono vitali affinché le persone possano sentirsi parte di una comunità che esiste davvero nel mondo reale.
In sostanza noi manifestiamo la nostra esistenza attraverso l’esternalizzazione dei nostri valori, che sono estetici. L’estetica delle nostre città coincide interamente con quella di un gruppo dominante molto specifico, che ha governato i nostri paesi negli ultimi duecento anni e oltre. Negare l’estetica significa negare la differenza, perché equivale essenzialmente a imporre un tipo di estetica che appartiene a un gruppo particolare di persone al potere, e questo si ottiene negando l’esistenza di qualsiasi alternativa o addirittura negando che l’estetica c’entri qualcosa. Dicono: “No, questo è il look della sostenibilità” oppure “Questo è il look della modernità e quindi vale per chiunque, è universale”. Ma significa mandare a quel paese qualsiasi forma alternativa di cultura del gusto, relegarla sotto i viadotti ferroviari, completamente ai margini.
© Julian Cardoso
DP: Quindi nel libro in che modo avete espresso questa lotta per la rappresentazione queer?
Lo abbiamo fatto partecipando a un gruppo dedicato alla ricerca e alla storiografia – speriamo si allarghi sempre più –, che cerca modi alternativi di creare spazi e inevitabilmente parla di forme alternative di estetica. Questo significa aprire lo spazio, lo spazio retorico e dialettico per poter discutere di estetica e di culture del gusto.