Dopo la partecipazione alla Milano Arch Week 2023 con la mostra e laboratorio Ai lavio condominio, abbiamo intervistato Rita Elvira Adamo del collettivo di giovani professionisti internazionali La Rivoluzione delle Seppie per saperne di più sul loro metodo e sull'approccio al territorio e alla creazione di comunità.
Risiedere in un luogo in modo transitorio ma costante: questa è la sfida dell'iper-collettivo La Rivoluzione delle Seppie, che dal 2016 ha intrapreso un'esplorazione architettonica e sociale unica a Belmonte Calabro, in provincia di Cosenza. Il collettivo è nato dall’incontro di studenti internazionali alla London Metropolitan University, School of Art, Architecture and Design, riuniti oggi in una comunità di professionisti e cittadini che, con un approccio transdisciplinare, opera nei vuoti dei territori, sia fisici che virtuali.
Questa non è una campagna Cheap LRDS, foto di Nicola Barbuto
Le Seppie, da questo avamposto apparentemente decentrato e periferico, ha avviato negli ultimi anni un dibattito culturale e un confronto con tutte le componenti della società civile, con la finalità di promuovere la partecipazione attiva dei suoi membri. Questa piccola utopia sociale ha già dato molti frutti ed è diventata un caso di studio in occasione della Biennale di Venezia, alla quale ha partecipato come uno dei nove progetti all’interno di “Spaziale: Ognuno appartiene a tutti gli altri” nel Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2023 curato da Fonsbury Architecture e promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Le Seppie si è confrontato con il paesaggio fisico e umano di Belmonte, lavorando a un'idea di comunità fluida che include anche chi non è residente ma ha un rapporto dinamico con il luogo, riscrivendone le usuali narrazioni che vorrebbero l'Italia cristallizzata in borghi, e pensando attivamente a una valorizzazione più radicale a partire proprio dallo spazio sociale. Rita Elvira Adamo, tra i membri fondatori del collettivo, racconta questo processo.
Courtesy La Rivoluzione delle Seppie
Partiamo dal nome che vi siete scelti: mi racconti la sua origine?
Da studenti alla London Metropolitan University la nostra formazione è stata molto influenzata dai corsi di Joseph Kohlmaier che adottava un metodo alternativo. Spesso all’interno delle sue lezioni teoriche ci proponeva il testo Vampyroteuthis Infernalis del filosofo e scienziato Vilém Flusser, non direttamente legato all’architettura ma che partendo dall’analisi biologica della Vampire Squid espone una visione post-umanistica unica della fenomenologia. Noi abbiamo cercato, traducendola in italiano, di estendere il significato metaforico di questa seppia-calamaro abissale, la quale vivendo nelle profondità è praticamente cieca e si orienta esplorando il mondo attraverso il tatto. Ci sembrava un’immagine molto appropriata di quello che volevamo fare attraverso i vari processi di lavoro, dell'approccio che volevamo avere con i nostri progetti: dimostrare che c'erano altri metodi oltre a quelli accademici, soprattutto il learning by doing, che cerchiamo di proporre attraverso i nostri laboratori e nei vari eventi che abbiamo iniziato da quando siamo arrivati in Calabria.
Ian Davide Bugarin, Luke Vouckelatou, Rachel Buckely per La Rivoluzione delle Seppie
Piazza Mercato, LRDS, foto di Nicola Barbuto
Qual è stato esattamente l'incipit di questa progettualità?
Come accennavo, ci siamo conosciuti durante i corsi di architettura a Londra, condividendo un interesse, quasi un bisogno, di sperimentare al di fuori dell'accademia in un contesto che potesse essere più ampio e al contempo "vuoto", come indicato nel nostro manifesto. Venendo da una città come Londra, la Calabria ci appariva un luogo potenzialmente fertile, un laboratorio ideale. Quindi, siamo giunti al piccolo paese di Belmonte Calabro, che in parte costituisce anche le mie origini.
Una volta qui, oltre a individuare spazi "vuoti", abbiamo incontrato una serie di criticità tipiche di queste zone rurali; il rapporto tra la comunità e l'immigrazione, tra le altre tematiche. Questi argomenti hanno iniziato a stimolare azioni con le quali abbiamo iniziato a lavorare. Tali tematiche sono diventate il fulcro delle classi di ricerca della London Metropolitan University che ha istituito un gruppo di ricerca diretta, Crossings Culture, guidato da Sandra Denicke-Polcher e Jane McAllister, che ha coinvolto gli studenti in progetti legati a queste problematiche. Si è così formato un gruppo eterogeneo e allargato, che ha interessato diverse discipline, non solamente l'architettura.
Interno Casa di BelMondo, foto di Giulia Rosco
Vi presentate con un manifesto molto affascinante, definendovi come un “iper collettivo” e con una citazione di Gordon Matta-Clark: Here is what we have to offer you in its most elaborate form – confusion guided by a clear sense of purpose. Qual è lo scopo principale del vostro collettivo?
Direi che il nostro scopo principale è di intervenire in un territorio decentrato, sfruttando l'esperienza culturale e accademica che abbiamo acquisito, al fine di attivare processi culturali e sociali. Abbiamo cercato di comprendere come promuovere tali processi in un luogo che tradizionalmente viene considerato una "periferia" rispetto alla gerarchia nella mappatura del territorio. L'obiettivo finale è di creare una nuova comunità, nutrita attraverso lo scambio di conoscenze, con l'intento di abitare il luogo in modo temporaneo ma costante.
Interno Casa di BelMondo, foto Giulia Rosco
Dal punto di vista operativo, quali sono stati i primi passi che avete intrapreso per avviare l'intero progetto?
Da gruppo informale siamo diventati un'associazione, questo passo ci ha consentito di dar vita al nostro primo evento significativo, il quale è diventato una parte strutturale e quasi un rituale. Questo evento ha contribuito a espandere la nostra rete sociale, coinvolgendo non solo l'università stessa, ma anche altri partner e individui che adesso identifichiamo come parte integrante de La Rivoluzione delle Seppie. Questo collettivo è una coalizione di molteplici collettivi, il che ci ha consentito di ampliare le nostre collaborazioni, coinvolgendo il Comune e il collettivo di architetti romano Orizzontale sin dal 2017. Con loro, e con altre realtà, abbiamo instaurato un rapporto di fiducia.
La presenza degli studenti è stata di fondamentale importanza, poiché grazie a loro siamo riusciti a facilitare l'incontro tra la comunità locale e quella transitoria. Grazie alla collaborazione con Orizzontale, tutto è cominciato con la creazione di una sedia. La sedia rappresenta in un certo senso il nostro metodo, poiché la sua realizzazione incarna il risultato del lavoro orizzontale. Questa sedia funge da simbolo insediativo e fondativo, ma è anche mobile nel suo concetto. La sua forma, benché parta da elementi di base, è determinata dai partecipanti: dagli studenti, dai migranti. È il frutto di un lavoro collettivo e imprevedibile. Di conseguenza, il risultato finale è variegato, ma allo stesso tempo nasce dalla stessa radice, rappresentando un tipo di orizzontalità guidata.
orizzontale, sedia, foto di Antonio D'Agostino
E dopo aver realizzato la "semplice" sedia, come avete proseguito?
La sedia è stata il prototipo iniziale che, nel corso degli anni, ha gradualmente aumentato di scala, trasformandosi prima in una stanza (all'interno della Biblioteca comunale) e successivamente nella Casa di Belmondo. L’anno scorso abbiamo ampliato il nostro ambito di azione, attivando durante il nostro evento principale, Crossings, un ex Mercato Ortofrutticolo che con l’intervento architettonico di Orizzontale è diventato una piazza temporanea per la marina di Belmonte, con l'obiettivo di aumentare l'impatto del progetto.
Nel rapporto con la comunità avete notato un cambiamento nell'interpretazione dell'architettura e del design rispetto all'idea tradizionale? È stato agevole condividere un'idea non convenzionale di progettazione dello spazio, sia fisico che sociale?
No, non è stato affatto semplice e questa sfida persiste ancora oggi. Tuttavia, questa complessità è stata fonte di stimolo e ci motiva ancor di più a continuare su questa strada. Dato che il nostro progetto non riguarda una semplice "ristrutturazione" come la si può immaginare comunemente, è necessario avviare dinamiche che sono lente ma costanti. In questo contesto è prezioso il lavoro di Gerardo Cleto, Joe Douglas e Vito Meola che oltre al loro impegno nelle attività di produzione e ricerca, svolgono un ruolo di facilitatori delle relazioni con il territorio. Non tutti gli abitanti hanno forse compreso appieno l'approccio, ma abbiamo ottenuto molte soddisfazioni. In qualche modo, siamo stati accolti, ma c'è ancora molto lavoro da fare.
Credo che lavorare in un luogo come la Calabria non significhi solamente operare in un'area geograficamente marginale, ma rappresenti anche l'opportunità di agire in una regione che è stata spesso ai margini in termini di opportunità e attenzione. Siamo convinti che il nostro tipo di lavoro stia già lasciando delle tracce al di là del paese, estendendosi su tutto il territorio e inviando messaggi che potrebbero non avere un impatto immediato, ma che si rifletteranno a lungo termine.
Quali sono i progressi più visibili al momento?
Con l'edizione 2019 di Crossings, abbiamo attivato gli spazi della Casa: la struttura, che in passato fu un convento delle monache e che è di proprietà comunale, è diventata un luogo ibrido polifunzionale. Abbiamo ottenuto l'accesso inizialmente attraverso un patto di collaborazione e successivamente in comodato d'uso. Piano piano, vivendola, l'abbiamo resa abitabile, anche se l'abitabilità completa non è ancora stata raggiunta, poiché non ci dormiamo. Tuttavia, in quattro anni, tutto il primo piano è stato reso accessibile, trasformandosi in uno spazio di co-living e co-working, ma anche molto di più, poiché le dinamiche avviate stanno trasformando lo spazio e il paesino stesso in una grande famiglia.
Inizialmente, era la casa della comunità temporanea, di chi transitava da Belmonte. Dopo il secondo lockdown, insieme agli studenti e al collettivo, abbiamo iniziato a concepirla sempre meno come un luogo temporaneo, ma come headquarters.
Prima abbiamo citato Matta-Clark, pensavo che da tanti punti di vista ciò che fate si avvicina a varie forme ed esperienze collettive oggi ormai accolte nei circuiti istituzionali dell’arte: da un parte tutta la tradizione dell’estetica relazionale, dall’altra collettivi come Gentle/Radical, Project Art Works, i Cooking Sections o gli Array Collective. Mi pare che ci sia una rinnovata sensibilità oggi anche per forme d'arte slegate da dinamiche oggettuali, e forse le cose più interessanti sono da ritrovarsi in forme più liquide di collettivi che lasciano ancora margine a utopie.
È bello che tu l'abbia notato perché ora siamo in un momento molto particolare del nostro processo, il nostro gruppo, il nostro lavoro stesso è in costante evoluzione, e così anche le possibili definizioni di ciò che facciamo.
Forse più che architetti che fanno architettura è corretto intenderci come practitioners perché significa appunto essere aperti e più arti, a più espressioni. A noi interessa molto questa idea di new form of practice, è questa la direzione che ci interessa al momento.
Il vostro linguaggio visivo, l’immagine coordinata nel suo non imporsi è molto curata e immediata, come lavorate a questi aspetti della comunicazione?
Quando abbiamo iniziato, tra i cofondatori di Le Seppie c’era Matteo Blandford che studiava con me architettura e poi si è dedicato alla comunicazione, dal 2019 ha iniziato a collaborare con Francesca Bova che è una Digital strategist. Entrambi a Milano si occupano professionalmente di comunicazione per aziende, ma continuano a seguire parallelamente questo progetto.
Al momento stiamo cercando di capire come ripensare la comunicazione che fino a oggi è stata concepita soprattutto online. Da quando l'anno scorso abbiamo vinto il bando con la Fondazione Italia Patria della Bellezza, abbiamo aperto una riflessione su come essere più efficaci nel comunicare con le comunità, sia online sia offline, modalità che hanno fisionomie molto diverse, e che comprendono diversi linguaggi e alfabetizzazioni. Anche in questo senso si ripresenta la dualità del nostro progetto che è una sfida, l'anno scorso abbiamo provato a fare un workshop con Claudio Morelli, ex direttore di VD News, proprio per parlare a entrambe le comunità, provare a fare un racconto di quello che succede sul territorio ma con uno stile un po' più contemporaneo; così come abbiamo lavorato con il collettivo di arte pubblica Cheap con il quale abbiamo sviluppato il progetto Questa non è una Campagna tra le strade del paese e delle frazioni con l’obiettivo di comunicare offline alle persone di un background generazionale e culturale diverso.
Interno Casa di BelMondo, secondo piano, foto di Giulia Rosco
Hai parlato di prototipi e certamente il valore di quello che fate risiede proprio nell'essere aperti sotto tanti punti di vista e di non essere associati a forme chiuse o a prodotti. Mi chiedevo però se avete preso in considerazione l'idea di creare come output delle vere e proprie collaborazioni, partnership che eventualmente potrebbero anche includere la creazione di oggetti.
Non so se saranno oggetti, ma certamente di prototipi sì, non abbiamo ancora pensato a serie, edizioni, oppure se lavorare con la partnership di aziende. Effettivamente ci sono degli strand di alcuni nostri progetti che potrebbero andare in quella direzione. È importante che le eventuali aziende coinvolte in queste collaborazioni rispettino e siano coerenti alla nostra visione, che è fatta di sostenibilità e anche con l’idea di portare lavoro. Ad esempio l’esperienza del laboratorio che abbiamo fatto durante la Milano Arch Week 2023 in Triennale, portando in mostra, con il design di Sara Ricciardi, i lavori del laboratorio di ceramica in collaborazione con Safa Moussadek e Chiara Fucà per bambini richiedenti asilo, potrebbe essere il punto di partenza per pensare a output oggettuali, ovviamente su una scala diversa di produzione. Si tratta di trovare interlocutori con la giusta sensibilità, ma sì, siamo aperti all’idea di realizzare anche “cose”.
Milano, laboratorio di Milano Arch Week 2023, courtesy La Rivoluzione delle Seppie
Su quale avventura state investendo più energie al momento?
Sono due le scale di progetto attuali: la prima è rendere Belmonte ancora più stabile a livello territoriale, se così si può dire. Stiamo finendo la Casa, rendendola più accessibile e più completa grazie anche ad alcuni fondi regionali vinti dal Comune, con un’impresa che finirà di costruire l'altro piano e i servizi, con la nostra supervisione, ma anche attraverso laboratori con studenti che sono arrivati a fine agosto grazie all’Erasmus+ da Atene, Grenoble e Torino insieme ai Zuloark e Collectif Etc. Stiamo poi provando a testare l’idea del Glocal Center, ovvero una sorta di “ente di enti”, lavorando con tutte le soluzioni del territorio di Belmonte e con il Comune per creare ancora più connessione tra territorio e associazioni, far crescere quello che è una sorta di ente collaborativo, per stimolare l’attenzione ai beni comuni del paese, ed estendere il nostro raggio d’azione a un territorio più vasto.
Abbiamo al momento un altro progetto nel comune di Cosenza, dove abbiamo vinto un bando di coordinamento del centro storico, per la sua riattivazione culturale e, perché no, anche tornare a Milano grazie all’esperienza di Arch Week nella casa popolare in Via Pietro Salvi con gli amici di EST. C’è insomma la volontà di espandersi al di là del territorio di Belmonte, dopo aver stabilizzato quell’esperienza, quindi non per lasciarla ma per rafforzarla e nel frattempo crescere.