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© Monia Pavoni

Spazio-suono-immagine: intervista ad Agnese Banti

19 febbraio 2024

In occasione di Speaking cables, presentata durante FOG Performing Arts Festival, abbiamo intervistato l’artista e musicista Agnese Banti, autrice e protagonista della performance.

In Speaking cables il tuo corpo e la tua voce navigano fra metri e metri di cavi, un microfono e svariati altoparlanti. Quali sono i temi che si intrecciano nell’opera?

Si può dire che Speaking cables rappresenti un ricongiungimento di interessi personali e artistici, che forse per la prima volta riescono a trovare un contatto di questo tipo. Nasce da un’indagine sonora. Il suono indagato tende a farsi altro da sé: la voce è strettamente legata al corpo e al nostro io, quindi quando fuoriesce espande i confini soggettivi e corporei. Il suono vocale esternalizzato crea uno spazio che può essere esplorato: l’attenzione è su di esso, ma la ricerca che lo investe è estetico-filosofica. A quella sul suono si affianca poi una seconda indagine, grafico-visiva. Ho cercato di portare in scena una sintesi radicale fra gli aspetti visivi e quelli sonori. Il progetto è percorso da domande simili: come può il sonoro materializzarsi nel visivo in quanto movimento, gesto, azione performativa? E come può il visivo essere letto attraverso il suono?

Come può il sonoro materializzarsi nel visivo in quanto movimento, gesto, azione performativa? E come può il visivo essere letto attraverso il suono?

© Giacomo Mondino

© Giacomo Mondino

In un’intervista hai parlato del fatto che i cavi, microfoni e altoparlanti che utilizzi non sono elementi neutri, ma interagiscono con la tua voce e la modificano. Si può dire, usando le parole della filosofa americana Jane Bennett, che questi oggetti abbiano in realtà una capacità di agire su di noi, che siano “vivi” (Materia Vibrante, Timeo, 2023)? 

I dispositivi che utilizzo sono una specie di estensione del corpo ma anche qualcosa di “altro”. Da una parte, al mio corpo si sommano dodici cavi da quaranta metri l’uno, che collegano un microfono ai dodici altoparlanti, tramite un tredicesimo cavo; dall’altra, questi oggetti non fanno davvero parte del mio corpo: non sono materialmente legati a me ma sono comunque un “elemento altro” con cui entro in relazione.  Anche riascoltare la propria voce registrata significa instaurare una relazione, un dialogo fra noi stessi e qualcosa che era nostro e che è uscito dal corpo ed entrato nel dispositivo. È diventato di tutti e chiunque lo può ascoltare. La contemplazione giocosa di Speaking cables si lega poi a una riflessione sulla prospettiva psicanalitica, secondo cui la fuoriuscita della voce dal nostro corpo è di per sé un’esperienza traumatica. È uno spossessamento ma può anche essere bellissimo, dal punto di vista estetico e percettivo, come quando sommiamo le nostre voci in un coro e diventiamo una cosa sola.

© Pietro Bertora

Restando su quest’idea della voce che si fa altro, che ruolo ha avuto nella tua ricerca la pratica del canto armonico (overtone singing), e in particolare come ha influenzato il tipo di vocalità che usi nella tua opera?

L’uso della voce nel lavoro è molto neutro, non presenta quel ventaglio di tecniche estese che vengono impiegate spesso da chi lavora con la ricerca vocale: queste tendono un po’ a spettacolarizzare la voce, mentre in Speaking cables la materia vocale è pulita e l’elaborazione elettronica non è mai spinta al punto di trasfigurarla. L’unica tecnica vocale specifica che uso è il canto armonico, che dà vita a un suono ricco ma, paradossalmente, immediato. Lo studio delle espressioni del canto armonico mi ha portata a pensare che in realtà sia bellissimo lasciare andare la voce attraverso quella modalità di emissione, perché permette di congiungersi con qualcosa di altro e universale. Per chi non conosce la tecnica del canto armonico non è facile capire esattamente cosa io stia facendo quando la uso, ma i suoni armonici prodotti dalla voce sono fra i più puri e accessibili per l’orecchio umano, il che li rende un’esperienza di ascolto all’altezza di chiunque.

© Monia Pavoni

In Speaking cables ti muovi in uno spazio astratto, magico, molto lontano dalla quotidianità. Cosa stavi cercando quando lo hai concepito? Cosa ti piacerebbe portare dal mondo della tua opera a quello della vita di tutti i giorni, nella sua complessità piena di variabili?

Quando mi pongono una domanda più specifica sull’esperienza che compio nella performance mi rendo conto che mi sono ritrovata spesso a interrogare tipi diversi di dualismi. Da una parte lo spazio del progetto è astratto, bianco, un luogo in cui accade qualcosa che non potrebbe accadere in nessun’altra situazione. Dall’altra, però, quello che accade è fisico, presente: ci sono i cavi, il corpo, il suono, il legno degli altoparlanti – questi elementi non hanno niente di astratto, così come le azioni che compio con e attraverso di essi. Avevo il desiderio di materializzare questa idea del foglio bianco, e quindi una pulizia totale dello spazio, la possibilità di diventare piccolissima e farmi una camminata sulla superficie di un A4 vuoto. Quando ho avuto l’occasione di realizzare il progetto, ho immaginato qualcosa che mi sembrava folle da poter mettere in pratica: è stato un pensiero davvero libero, così come è libera l’offerta di un foglio bianco ancora pulito. Quel che mi porto a casa è l’aver potuto trasformare dei dispositivi audio in elementi di composizione visiva e l’esperienza di muoversi in uno spazio bianco di dieci metri per dieci e riempirlo come desidero.

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