The Nightswimmer

17 aprile 2024

Prologo

Ho la canzone nella testa mentre aspetto al buio dietro le quinte del teatro. Le persone stanno entrando in sala, sento le loro voci, cerco di immaginare dal rumore quante potrebbero essere. Quante poltrone saranno occupate e quante vuote. Respiro, mi preoccupo, mi dico che è già molto essere lì, a due passi dal palco dove tra poco salirò. Non ci sono luci qui, l'aria si sta facendo densa, lo spettacolo è di fronte a me e mi guarda, mi chiama, ha bisogno del mio corpo. O forse sono io che ho bisogno di lui, oppure nessuno ha bisogno di niente, solo della sensazione di trovarsi un attimo prima che la cosa succeda. Un attimo prima di tuffarmi a occhi chiusi dentro una vita che avrei voluto vivere, sentendo il rumore delle assi di legno del palco mentre faccio il primo passo e sto per uscire, alla vista delle persone. Ho il solito maglione blu di lana e gli occhiali da sole. È come stare sott'acqua e sentire il rumore del respiro nel boccaglio. Come nello spazio esterno, senza la voce di HAL9000 nelle orecchie. Come l'oceano nero delle aspettative. Esco e, incredibilmente, a quel punto succede. Il mio corpo e le mie parole davanti al mondo, il mondo che è il teatro, il mondo che non conoscerò mai fino in fondo.

(Il mondo è tutto ciò che accade. Sentenziava Wittgenstein.
Die Welt ist alles, was der Fall ist).

C'era la Via Lattea in cielo la prima volta che sono saltato di notte nel mare. Era uno spettacolo da perderci la testa ("È pieno di stelle", scriveva Arthur Clarke), ma io volevo vedere altro, anzi, volevo smettere di vedere, per sentire di più, per essere acqua, per perdermi nello spazio più grande, per sentire il suo silenzio segreto. Volevo immergermi e scomparire dai radar, dalla geolocalizzazione, dall'eterna connessione, dalle pressioni. Volevo solo essere, essere lì. Diventare Ismaele e stare nell'universo di Moby Dick, come una reale possibilità. Essere lì per poi, un giorno, scriverne. E farlo diventare vero.

Ho Chi Min City, aprile 2018

Dalla terrazza dello skybar si sente l’Occidente. Penso che sia Chicago quella che si disegna come una sagoma di luce a tutto tondo intorno a me. Penso al tempo della storia, alla sua incoerenza crudele, mentre la gente balla e beve cocktail dal costo, così come dal sapore, imprecisato. C’è tutto in ballo, o forse non c’è nulla, solo i (miei) fantasmi che emergono da dietro le colline e le sagome infuocate dei grattacieli: elicotteri, contadini analfabeti e armati, membra, bottiglie di liquore oscuro, delirio. E poi l’ombra congolese del colonnello Kurtz. Sotto i bassi dalle casse mi sembra di sentire uscire la sua voce che ripete una specie di preghiera oscena. Guardo il mio bicchiere, temendo di trovarci un verme. Non c’è per fortuna (e forse in fondo la circostanza un po’ mi delude), così me lo scolo a cuor leggero, metto gli occhiali da sole (non so se per imitare il professore di studi hitleriani di Rumore Bianco oppure uno dei tanti mostri di Bret Easton Ellis, magari un vampiro), e me ne vado. Ma niente taxi, decido di andare a piedi. Saranno sì e no cinque chilometri fino all’albergo: senza connessione internet, solo e potenzialmente perduto. È molto tardi e la città per me si chiamerà sempre Saigon. L’ora postmoderna di una ex tigre asiatica e un vecchio ex ragazzo della Guerra Fredda.

Dal mio diario, scritto dopo l’arrivo in hotel: “Ho cercato di sentire, passando sotto alberi e palazzi coloniali, attraversando pozzanghere e scavalcando marciapiedi scivolosissimi, tutto il calore della notte vietnamita (la mia povera camicia alla fine della serata sarà chiamata a testimoniare), tutto lo stordimento dell’alcol, tutta la follia di una città impossibile. E, passando accanto al Teatro dell’Opera o ai vecchi hotel, ringraziando la signorina che educatamente mi proponeva massaggi ‘con personale giovane’, ma dicendole che avevo solo voglia di camminare, guardando le moto parcheggiate in ogni angolo e le persone sedute, su sedie più piccole della media, a mangiare noodles per la strada, ho cercato di pensare a che cosa significa stare in questo posto oggi, soprattutto alla luce di come una generazione di giovani americani ci è passata al tempo della guerra del Vietnam. Volevo essere ubriaco stasera per provare a immaginare un po' meglio (pochissimo meglio, è chiaro) come stessero loro, qui, ormai tanto tempo fa”.

Non ero ubriaco, e non ho sentito quasi nulla: la verità è sempre modesta alla fine. Però, qualche ora prima, al Museo dei Crimini di Guerra, aspettando di salire con un imbarazzo ipocrita su un risciò a pedali, avevo scoperto che la famosa foto di Nick Ut nella quale si vede una bambina vietnamita nuda, con le braccia aperte, che fugge in lacrime dopo un bombardamento americano, quella foto che aveva perforato come un proiettile impazzito l’immaginario di un paio di generazioni e con esse il mio, era stata scattata l’8 giugno del 1972, il giorno in cui sono nato io. Anche in quel momento ho pensato che fosse giusto rimettere gli occhiali da sole, dei Ray-Ban da sedicente pilota.

Qualche giorno dopo, in un hotel arredato in stile anni Trenta, mi sono sentito come il capitano Willard di Apocalypse Now che, la notte prima di partire alla ricerca di Kurtz, devasta la sua stanza d'hotel a Saigon, in preda a un delirio psicotropo. Non ho rotto nulla, solo guardato le macerie dentro di me. Poi mi sono messo addosso un asciugamano e sono sceso a nuotare nella piscina. Ho guardato l'orologio, erano le 2.24 del mattino, ora del Vietnam del Sud.

Venezia, luglio 2021

Ho preso il vaporetto solo per sentire l'odore della Laguna di notte e vedere la luce accesa dentro i pontoni, vederla dal mare. Quella luce così esatta. Una donna con un vestito bianco, le gambe abbronzate, aspetta a Sant’Elena quello per il Lido, che passerà a un’ora imprecisata. Ho la sensazione vaga che possa essere un’ora interessante, un’ora di sottili desideri. Scendo alla fermata successiva, Giardini, praticamente più lontano da dove ero partito (dal bacino interno dell’Arsenale), perché ho bisogno di camminare. C'è ancora molta gente in giro e qualche insegna psichedelica, che mi fa pensare al Messico. Una sensazione che ha qualcosa di malsano, anche se addolcita dalla certezza che qui, un po' come a New York, si è sempre tutti stranieri e nessuno sembra conoscere le mappe in profondità. 

(While lovers laugh and music plays
I stumble by and I hide my pain
The lights are lit, the moon is gone
I think I've crossed the Rubicon
)

(Le coppie attraversano le calli, con convinzione incrollabile e misteriosa).

A tratti piove, la gente si ripara sotto i portici di San Marco: sembrano esausti a volte e più liberi da tutte le costrizioni del turista. Quella strana combinazione di camicie alla coreana e Birkenstock, bottiglie termiche e luci azzurrine che trapassano il tessuto multicolore dei pantaloni. Non riesco a indovinare l’età di nessuno di loro, il che forse è un bene. Arrivo dalle parti del Teatro La Fenice e cerco una pizzeria da asporto di mia conoscenza, ma è già chiusa. Allora entro in un bar e chiedo al gestore cinese due paste alla marmellata, me le porto in camera. Sul bancone ha una enorme bottiglia di Select. Enorme.

La notte, penso mentre osservo la quantità esagerata di marmellata all’albicocca nei due pezzi dolci, libera lo spazio a Venezia. Mi ricorda la sua essenza di luogo-malattia. I lampioni prendono senso, ben al di là dello stereotipo da cartolina. Mi fermo a guardarli e respiro l'aria densa, che quasi mi soffoca. Sul ponte dietro all'Arsenale l'odore è così forte che abbasso la mascherina e rimango ad annusarlo, sentendomi, per una frazione di minuto, come l'incurabile Brodskij, fondamentalmente.

(Bruce Nauman cammina nel suo studio e traccia i passi del contemporaneo. Indossa una maglietta bianca bucata sotto le ascelle. Bruce Nauman che diceva: la gente muore di esposizione). Nel buio della mostra a Punta della Dogana percepisco la Necessità del lavoro dell'artista americano. È come se mi trovassi dentro al contenitore stesso del contemporaneo, che ha senso a prescindere dal contenuto. Mi siedo sul pavimento e, tentando il più possibile di scomparire, guardo le mani enormi muoversi per lunghi minuti di meravigliosa incertezza. Esistere, stare, trovarsi, abitare.

(“Lei mi accorda la parola per poi ritirarla - scriveva Samuel Beckett a Simone De Beauvoir nel 1946 - quando ancora non ha avuto il tempo di significare qualcosa. Lei immobilizza un’esistenza sulla soglia della sua risoluzione. Tutto ciò ha un che di incubesco”).

A un tratto mi immagino che per un problema tecnico tutte le luci della mostra si spengano improvvisamente per qualche secondo. Mi immagino di restare completamente solo, seppure in uno dei musei che mi sono più noti e familiari. Così posso pensare all'eco visiva dei video di Nauman che lasciano fantasmi luminescenti nei miei occhi oscurati. E anche allo spettacolo di Marco D'Agostin, visto poche ore prima alla Biennale Danza, che mi ricorda che solo nel buio si possono vedere le stelle.

(You are the Dark
I see the Stars
)

(Der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir)

Lo stesso buio che avevo visto anni prima, ancora poco avvezzo al mistero salmastro di Venezia, guardando il mare aperto oltre la Laguna, tra il Tronchetto e la Giudecca. Il punto in cui tutto diventa possibile, soprattutto un naufragio segreto e dolcissimo che fa pensare alla parola “amore”. Come se la avessi saputa capire.

Cronache dal Coprifuoco, autunno 2020

Notte sette
È un silenzio intermittente. La notte, la Madre notte, sembra avere vinto, almeno qui. La provincia cova rivolte tremende, ma non ne parla, non lo dà a vedere, rimugina a lungo. Ma in questo silenzio venato di nervosismo ci sono anomalie di sistema, eventi che cambiano la situazione, strappi nel velo del coprifuoco: gli aerei. Rumori profondi, eco accusatorie, accelerazioni spavalde che scendono sulle case come una cappa di possibilità. Ma non si vedono, sono solo rumore, un rombo d’indefinito, un accordo potente, che non trova altre armonie se non la propria (e di riflesso nostra) solitudine. Ci sono e non ci sono, questi aerei, sembrano avere qualità speciali, visti da quaggiù. […]

Notte diciassette
Il giorno non è molto diverso da prima, la notte però sì. La notte è svuotata, la notte è offesa, scomparsa. Si ritira nella sua grotta e lascia una specie di grande buco al proprio posto. Come fosse un’opera di land art, solo che il paesaggio su cui interviene siamo noi, che restiamo lì a bagnarci ancora un po’, mentre il tram di mezzanotte (se i tram di mezzanotte ci fossero ancora) se ne va. Il mondo sembra una grande banchina dove aspetti, aspetti, aspetti per ore che passi il 9, alla luce impassibile di quel lampione. Oppure un deserto dei tartari postmoderno nel quale tutti indossiamo una maschera, non da John Malkovich, ma ovviamente da Giovanni Drogo. Comparse che restano ferme, immobili, mentre il set viene smontato e tutti, anche i tecnici più tiratardi, sono pronti ad andarsene a casa. Soli davanti a un mare di vuoto, ecco, si sta come d’autunno di notte naufragati.

(Sempre allegri ragazzi, non vi manchi la lena,
quando il buon ramponiere colpirà la balena!)

Questa notte deprivata è il momento, dato che Moby Dick è il mondo intero, in cui la lancia di Achab e Fedallah si cala in mare, silenziosissima, in un’oscurità che è la stessa nella quale Lord Jim perse il Patna e il suo onore (almeno secondo i canoni dell’epoca). Il Capitano e il Ramponiere, figure sottili davanti al sipario, occhi infuocati e panciotti neri, animati da un furore che colma le mancanze. È grazie a loro, al loro essere personaggi, al loro restituire una narrazione, che la notte prova a riprendersi un brandello di sé, come quel frammento di pelle di brontosauro che Bruce Chatwin trovò a casa di sua nonna, prima di partire per la Patagonia. Ecco, questa notte è una Patagonia.

(Forse il brontosauro non è mai esistito, forse è stato solo un abbaglio di un paleontologo distratto).

(Like a Friday fashion show
Teenager cruising in the corner
Trying to look like you don't try
)

Nessuno, in quel buio, ti potrà vedere piangere, neppure quel Fedallah dai capelli a turbante che restò fino alla fine un mistero velato. Nel vuoto le tue lacrime non faranno rumore, si accumuleranno sul pavimento con discrezione, fino a quando, all’improvviso, un giorno lo sfonderanno e precipiteranno di sotto in un fragore d’esplosione. Come in un’installazione di Thomas Hirschhorn. (Ho telefonato due volte a Thomas Hirschhorn, questa cosa continuo a raccontarla perchè mi sembra talmente strana che a volte sospetto di essermela inventata. Lui parlava sempre a voce altissima e mi chiamava Lionardo). E insieme alle lacrime, anche tu precipiterai vorticosamente verso l’alto, verso l’altro, verso il possibile, oltre queste impossibili notti.

(I cried the other night
I can't even say why
Fluorescent flat caffeine lights
It's furious balancing
I am the screen, the blinding light
I'm the screen, I work at night
)

Notte sessanta
Sono nella vasca e ho gli avambracci troppo sudati. Tra poco scriverò un pezzo sulla Vittoria alata che torna a Brescia, ma prima devo fare una cosa abbastanza difficile: devo liberare i personaggi di Jean e Claire, che mi hanno accompagnato e ho usato in questi mesi. Andate, siete liberi, non scriverò più di voi, magari solo qualche accenno, perché vi penserò molto comunque, ma adesso avete la vostra vita davanti. Il tempo che inizia domani avrà bisogno di un’altra narrazione, questa ha dato quel (poco) che poteva dare e si ferma qui. Arriverà qualcos’altro, ma le Cronache hanno esaurito il loro spazio, dentro di me. Voi, Jean e Claire, mi avete accompagnato e adesso ci salutiamo, qui, dalla vasca ancora piena di schiuma. Mi mancate, mi siete sempre mancati, avete tutto il mondo da scoprire, lontano da me. Vi voglio bene, ma me ne devo andare, l’estate dalla quale siete nati non c’è più, è giusto così.

(Qualcuno, un giorno, mi manderà un biglietto. Ci sarà scritto che li hanno visti tornare, tenendosi per mano. Sarò felice per loro, lo aspetterò quel biglietto come una speranza, come a Riccione oggi aspettano i turisti…).

(Sessanta giorni - notti comprese - sono 5.184.000 secondi).
(Dalla Terra alla Luna ci sono solo 384.400 km).
(Ne abbiamo fatta di strada. Non so se riuscirò a non tornare).

Epilogo, febbraio 2024

Sono in una stanza d'albergo a Padova, a due passi dalla stazione. Sono mesi che passo in alberghi la metà delle notti. Dormo troppo poco, scrivo, mi fanno male gli occhi per colpa degli schermi. Cerco anche stasera di mettere il mio corpo dentro le parole, ma ho solo voglia di sognare, con le lenzuola sopra la testa. Sognare di muovermi leggero, di vedere lontanissimo, di lasciare che ogni cosa si disperda nel suo racconto. Sognare di essere nel tempo, di allargare le incertezze fino a farle diventare un oceano e dentro nuotare, come in un racconto di John Cheever, ma fatto di carne, di peso, anche se solo immaginari. Sognare di vedere Franz Kafka nel volto di mio figlio, per essere poi la stessa persona: io, lui, lo scrittore. Nessuno ci perdonerà, ma lo faremo noi da soli. Sognare i sogni dei critici di 2666 di Roberto Bolaño, quella piscina profondissima e terrorizzante ai confini del bosco. Come nuotatore notturno è lì che ho sempre voluto arrivare (nel sogno di un romanzo sconfinato).

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