Nell’ambito del percorso di approfondimento dei temi di Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano, abbiamo coinvolto a partire da giugno 2021 ricercatori, dottorandi e studenti delle università milanesi e la rete delle comunità straniere in una serie di incontri e seminari organizzati e coordinati da Pupak Tahereh Bashirrad, architetto e dottore di ricerca.
Le immagini costituiscono da sempre una cruciale forma di mediazione della conoscenza. Le visualizzazioni scientifiche, oggi enormemente potenziate dalle tecnologie dell’era digitale, rappresentano una tappa essenziale non tanto della divulgazione di un sapere, quanto della sua elaborazione; mentre portiamo alla visibilità un fenomeno, o un processo, lo comprendiamo, definiamo e circoscriviamo. Questa mediazione è complessa e articolata anche quando viene presentata come una mera riproduzione “oggettiva”, perché nell’immagine la spinta all’analisi dell’ignoto si combina sempre con il desiderio di addomesticarlo, neutralizzandone il potenziale dirompente e riconducendolo al già noto.
La società contemporanea postmediale e le diverse economie dei dati che la sorreggono lavorano sistematicamente alla cancellazione dell’ignoto attraverso varie forme di previsione, premediazione e preconizzazione del futuro; ma negli ultimi due anni l’umanità ha fatto i conti con l’inaspettato, ovvero con un virus che la medicina non attendeva e non preconosceva. La sua visualizzazione è stata una tappa essenziale per la scienza e per l’immaginario: da un lato è servita a chiarire le modalità del contagio, dall’altro ha dato un volto a quel “nemico invisibile e insidioso” contro il quale il 25 marzo 2020 l’allora premier Giuseppe Conte chiamava alle armi.
Novel Coronavirus SARS-CoV-2, NIAID-RML National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) via Wikimedia Commons
L’esperienza pandemica ha enfatizzato il potere operativo delle immagini, la loro capacità di avere conseguenze effettive sul mondo e non semplicemente di testimoniare, informare e illustrare. Di fatto la pandemia può essere considerata un evento mediale, cioè non semplicemente un evento raccontato ma anche configurato dai media come la stampa, la televisione o il web. L’immagine che ha reso visibile un microrganismo non percepibile a occhio nudo è stata dunque un atto, e come tale ha modificato alcuni stati del mondo, anche in virtù della sua nuova natura (o ontologia) di immagine postfotografica, il cui statuto è al centro delle ricerche dottorali in Teoria dell’immagine di Rosa Cinelli e Roberto Malaspina.
Per ottenere le immagini di SARS-CoV-2 sono state impiegate diverse tecnologie che hanno integrato “impronte” dirette del virus (ottenute attraverso il microscopio elettronico) e rielaborazioni in computer grafica. L’immagine circolata sui media non era dunque una fotografia di ultima generazione ma combinava l’estrazione di dati, forme e misure della materia vivente con interventi grafici espressivi. È celebre la raffigurazione in computer grafica di Alissa Eckert e Dan Higgins, creata a gennaio 2020 a partire da dati ricavati direttamente dal microrganismo, ma rappresentati secondo scelte stilistiche e cromatiche funzionali alla raffigurazione e semplificazione della sua struttura.
SARS-CoV-2, NIAID-RML, CC BY 2.0 via Wikimedia Commons
È proprio in virtù del suo statuto ibrido che l’immagine del virus è stata tra i principali strumenti operativi per il contenimento della pandemia. Essa ha determinato la comprensione massificata della sua struttura e del suo modo di agire, decretando forme di consapevolezza estesa e rappresentando una precisa linea di azione economica e politica. L’immagine di Eckert e Higgins ha raggiunto lo statuto di emblema della pandemia concentrando la morfologia del suo agente e la nostra esperienza del contagio: le rilevazioni oggettive su cui è basata sono state appunto completate da arricchimenti grafici, tanto importanti per la costruzione del senso e dell’evidenza scientifica quanto la base fotografica. Il rendering in computer grafica, con i suoi colori convenzionali e le sue ottimizzazioni figurative, dimostra l’operare dell’apparato simbolico anche all’interno delle immagini della scienza. Per salvaguardare la potenza dirompente dell’ignoto è dunque necessario capire il nostro modo di comprendere, prendendo le distanze dalle nostre stesse rappresentazioni e svelando l’immaginario che le sorregge. Forse fra molti anni capiremo a fondo quell’immagine emblematica, ciò che l’ha determinata e il modo in cui ha incarnato e condizionato la nostra conoscenza; osservare il modo in cui è stata recepita e reinterpretata dalle culture Altre, invase dal virus in ritardo e dunque entrate in contatto non più con l’ignoto ma con la sua precomprensione occidentale, aiuta a valutare i nostri processi conoscitivi e la loro abitudine ad addomesticare tutto ciò che si presenta su scala non umana.
Tipica piñatta di compleanno, rielaborata a tema Coronavirus. Fotografia scattata da Elena Fusar Poli durante la ricerca etnografica a Oaxaca, Messico, 2021
Esperienze di campo condotte dalle dottorande in antropologia Elena Fusar Poli e Laura Volpi nello Stato messicano di Oaxaca e nell’alta Amazzonia peruviana dimostrano come la recente infezione da SARS-CoV-2 e le nuove conoscenze medico-scientifiche importate dai visitatori stranieri abbiano costituito delle sfide concettuali importanti per le popolazioni del luogo. Nel mondo delle comunità di Oaxaca, ad esempio, COVID-19 è lo sconosciuto, la malattia “de los chinos y de los europeos” che rappresenta il ritorno del radicalmente Altro giunto per mano di quelle stesse culture che, nel corso dei secoli, hanno assunto il ruolo dell’invasore inducendo una serie di trasformazioni politiche e sociali che hanno costretto i diversi raggruppamenti nativi a ripensare il proprio modo di percepirsi e a ricalibrare le proprie conoscenze. Il virus, risultato di un modello di sviluppo disarmonico rispetto alla Terra e alle tradizioni, diventa il simbolo di tutto ciò che attenta al modus vivendi proprio delle comunità.
Pittura muraria dedicata alla pandemia a San Pablo Etla nella settimana dei morti, dettaglio. Fotografia scattata da Elena Fusar Poli durante la ricerca etnografica a Oaxaca, Messico, 2021
Le cause dei contagi restano per lo più nel campo dell’ignoto, per via della scarsa disponibilità dei tamponi, del loro costo proibitivo e della radicale differenza (geografica, culturale e simbolica) tra il modello sanitario occidentale e i sistemi di cura tradizionali. Nella foresta amazzonica peruviana, il recente incontro con gli studiosi di biologia molecolare conduce i raggruppamenti nativi a ripensare criticamente la propria rappresentazione della corporeità: sostanze invisibili e concetti sconosciuti (quali, per esempio, “cellule” “geni” o “DNA”) fanno irruzione nel mondo indigeno, mettendo in discussione l’etno-fisiologia locale, basata principalmente sulla circolazione e sullo scambio di cibo, bevande e liquidi corporei. In questo contesto, anche il ricercatore bianco rientra nell’ambito dell’ignoto e viene rappresentato come un pericoloso predatore che, insieme ai campioni biomolecolari, desidera prelevare la conoscenza e le sostanze vitali indigene.
Pittura muraria dedicata alla pandemia a San Pablo Etla nella settimana dei morti. Fotografia scattata da Elena Fusar Poli durante la ricerca etnografica a Oaxaca, Messico, 2021
Quello che accade in questi Paesi non è diverso da ciò che accade in Occidente sulla base di diversi schemi cognitivi e modelli concettuali. Come a Oaxaca la minaccia fantasma della pandemia viene riletta dalla comunità alla luce di una rappresentazione del mondo propria mesoamericana (con il virus visualizzato come insetto infestante che entra in relazione con la Terra e gli individui indigeni), e come nell’universo amazzonico i nuovi elementi biomolecolari divengono parte integrante delle mitologie native, così in Occidente il virus finisce incasellato nel nostro immaginario e viene addomesticato da tecniche di visualizzazione che conservano una forte componente mitica. La continua riflessione sulla nostra condizione di ricercatori, ma anche semplicemente di occhi tecnologizzati e situati il cui sguardo costantemente filtra, seleziona e configura l’ignoto sulla base di presupposti culturali, è dunque il prerequisito alla base di qualunque gesto conoscitivo.