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Pierre Charpin, Mes Fantômes, special commission per la mostra Text, 2023, Triennale Milano, courtesy l'artista

A caccia di “fantasmi”. Intervista a Pierre Charpin

3 luglio 2023

Disegno e scrittura vanno da sempre di pari passo nella pratica del designer francese. L’opera realizzata su commissione per la mostra Text riunisce questi due elementi in un unico spazio, quello di tre grandi fogli, evocando un particolare tipo di spettri: quelli che popolano i computer dei progettisti. 

Artista e designer, Pierre Charpin (Parigi, 1962) associa una forte vena narrativa, nutrita e sviluppata nei suoi anni milanesi durante i quali ha lavorato nello studio di George Sowden e assorbito per procura lo spirito di Memphis, a un tratto geometrico rigoroso ereditato dalla tradizione del suo Paese e in particolare da Le Corbusier. Il suo lavoro attraversa tutti, o quasi tutti, i settori della progettazione, dal mobile di produzione industriale all’edizione limitata per gallerie e collezionisti, dal vetro alla ceramica. Per la mostra Text, curata da Marco Sammicheli, ha realizzato Mes Fantômes, una serie di tre manifesti che rendono omaggio ai fantasmi dei progetti mai realizzati, studiati nei minimi dettagli e coccolati prima di essere abortiti. Charpin li ha paragonati agli Yūrei della tradizione giapponese, gli spiriti inquieti protagonisti di tanti racconti e leggende e perfino celebrati con una ricorrenza annuale ogni 26 luglio. Nel giardino di Triennale Milano, ci ha raccontato la genesi dell’opera e il modo in cui utilizza la parola scritta per fissare ricordi e sensazioni.

Qual è stato il punto di partenza di questo lavoro?

Quando Marco Sammicheli mi ha contattato e mi ha parlato della mostra era soprattutto interessato al fatto che scrivo sempre sul mio lavoro alla fine di ogni progetto. Per questo è stato subito chiaro che il mio intervento sarebbe stato sul rapporto tra testo e immagine.

Che tipo di testi scrivi?

Non si tratta di testi teorici o di spiegazioni, sono piuttosto tentativi di definire con quale sensibilità sia stato affrontato un particolare progetto e in che modo si sia sviluppato nel tempo. È un processo che di rado avviene in linea retta, di solito ci sono andate e ritorni, ripensamenti… Ci sono anche elementi che assorbo dal contesto, spesso in maniera non del tutto consapevole, e che vanno ad alimentare il progetto. Per esempio, a giugno dell’anno scorso ho presentato qui a Milano una collezione di oggetti per la tavola e lampade (si intitola Cadence e si compone di 29 pezzi, tutti caratterizzati da un motivo a righe orizzontali e verticali, n.d.i.) che ho disegnato per la cristalleria Saint-Louis, un’antica manifattura francese oggi parte del gruppo Hermès. La fabbrica si trova nell’Est del Paese, nella regione dei Vosgi, in un piccolo villaggio circondato dal bosco. Mi sono accorto soltanto alla fine del lavoro che l’ambiente, insieme alle tecniche di lavorazione e al savoir-faire della manifattura, aveva in qualche modo influenzato il progetto, e ho provato a raccontarlo. 

Pierre Charpin, Mes Fantômes, special commission per la mostra Text, 2023, Triennale Milano, courtesy l'artista

È un modo per esplicitare certi passaggi che altrimenti rimarrebbero sottintesi?

Sì. E poi scrivere questi testi mi permette di lasciar andare il progetto al suo destino, verso la sua vita di oggetto offerto agli altri. Scrivere è un’attività che mi richiede uno sforzo, mi trovo più a mio agio con il disegno, però ci tengo moltissimo.

Al centro dell’opera che presenti all’interno di Text ci sono le cosiddette “immagini fantasma”, di che cosa si tratta?

L’espressione viene da un testo che ho scritto durante la Pandemia di COVID-19, a proposito di un fenomeno che tutti i progettisti conoscono anche se non necessariamente con questo nome. Cominciamo tanti progetti e, per varie ragioni, molti di questi a un certo punto si interrompono. Lavorando con il computer e con la modellazione in 3D, i dettagli devono essere definiti in maniera molto precisa già nelle fasi iniziali e, anche se per quanto riguarda il mio studio non abbiamo una cultura del rendering iperrealista, ci troviamo di fronte a immagini molto realistiche. A cose che sembrano reali ma non lo sono. Nel testo le ho paragonate ai fantasmi presenti nel folklore del Giappone, un Paese che amo e che al pari dell’Italia considero un po’ una seconda casa.

Le “immagini fantasma”, essendo immateriali, tendono a sparire nei meandri della memoria del computer per poi riapparire all’improvviso quando si fanno ricerche per studiare soluzioni tecniche o formali già utilizzate in progetti precedenti.

Quindi avete deciso di “evocare” alcuni di questi fantasmi.

Esatto. Parlando con Marco, piano piano ha preso forma la proposta di sovrapporre il testo che avevo scritto in francese, e la sua traduzione in inglese e in italiano, a tre immagini di progetti che non sono stati realizzati e senz’altro non lo saranno mai. Abbiamo scelto dei render che si riferiscono a tre progetti diversi, non abbiamo precisato per quale azienda o galleria fossero stati fatti né quando, perché non sono informazioni importanti in questo contesto. 

Potresti dirci comunque qualcosa in più?

Uno dei tre progetti, la sedia, era parte di una ricerca che avevo iniziato per la Galerie kreo di Parigi, una collezione di mobili in fibra di carbonio. Un altro era stato fatto per l’azienda italiana Magis. La scelta di sovrapporre i testi alle immagini, però è stata fatta anche per non renderle troppo leggibili, rafforzando l’idea che siano in qualche modo dei fantasmi. 

Pierre Charpin, Mes Fantômes, special commission per la mostra Text, 2023, Triennale Milano, courtesy l'artista

Milano è stata una città molto importante per la tua formazione. Qui hai avuto modo di lavorare con designer che avevano fatto parte dell’avventura di Memphis, per esempio George Sowden, e di conoscere grandi maestri come Ettore Sottsass e Alessandro Mendini. Anche loro scrivevano tantissimo…

Per me l’aspetto testuale ha sempre fatto parte del design. Mi sono formato all’Accademia di Belle Arti e il design non era uno sbocco diretto, un fattore determinante è stata la scoperta del design italiano attraverso la lettura di riviste come “Domus” e “Modo”. In Alchimia e in Memphis ho trovato un’energia simile a quella che avevo trovato nella musica inglese di quegli anni. Quando venivo a Milano, poi, ne approfittavo per comprare dei libri: uno di questi, che è stato molto importante per me, è Progetto infelice di Alessandro Mendini (RDE, Ricerche Design Editrice, Corsico, 1983), un altro lo scrapbook con la copertina gialla di Ettore Sottsass (Sottsass. Scrap-Book. Disegni e note, Grafiche Milani, Segrate, 1976). A quei tempi parlavo poco l’italiano ma ho tradotto come potevo i testi di questi libri perché mi interessava capire lo spirito del loro lavoro. Non ho abbandonato completamente, però, la passione per l’arte e la pratica del disegno come tale, cioè per sé e non come tappa di un progetto. 

Con Mendini hai lavorato anche alla scenografia di una mostra fondamentale da lui curata, Quali cose siamo (2010), proprio qui in Triennale.

Quando Alessandro mi ha proposto di fare questo allestimento ne sono stato onorato, perché lui era una persona bellissima, e ancora oggi la ricordo come una delle esperienze progettuali più intense della mia vita, anche perché in due mesi ho dovuto far entrare nel museo circa 800 oggetti che andavano dall’anello all’automobile. Era bellissimo lavorare con lui perché aveva qualcosa da raccontare su ognuna di queste cose: che si trattasse di storie personali o di aneddoti, erano tutte molto “abitate”.

Quali cose siamo, installation view, 2010, foto Giovanni Chiaramonte

Quali cose siamo, installation view, 2010, foto Giovanni Chiaramonte

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