Il tavolo in pino galiziano, progettato dal designer danese per la mostra Text, è tante cose insieme: un oggetto funzionale, un atlante delle possibilità che offre la lavorazione del legno, un esercizio di co-design portato avanti con dodici colleghi, un autoritratto sui generis e un contenitore di storie. In questa intervista Henrik Tjærby ce ne racconta alcune.
Triennale Table, foto di Henrik Tjærby
Nato in Danimarca ma residente nel Nord della Spagna da circa quindici anni, Henrik Tjærby si definisce un “designer industriale” e un “maker”, convinto della complementarietà tra questi due approcci solo apparentemente opposti. Nel suo laboratorio, costruito con granito riciclato, come si usa nella campagna galiziana, alterna la manipolazione artigianale del legno – un materiale che ama molto, e che ha avuto modo di approfondire collaborando con aziende dal raro savoir-faire come Artek e Vaarnii – e l’uso dei più moderni macchinari a controllo digitale. È del tutto naturale, quindi, la sua risposta alla richiesta di Marco Sammicheli, curatore della mostra Text, di realizzare un’opera speciale e su commissione: un oggetto funzionale, un tavolo in legno di pino lungo sette metri che è anche un compendio delle diverse tecniche di lavorazione di questo materiale, manuali o più tecnologiche, un omaggio ai suoi amici del mondo del design che lo hanno reso il designer che è oggi.
Henrik Tjærby, foto di Simone Maestra
Al centro della mostra Text c’è il rapporto tra testo e tessuto, due parole che condividono la stessa etimologia (dal latino texĕre: intessere, intrecciare). La scrittura e la tessitura si basano in effetti sullo stesso principio: costruire qualcosa di più complesso a partire da unità elementari – parole, punti o nodi – connesse tra loro in accordo con un certo numero di regole sintattiche. In entrambe le attività, la creatività è libera di muoversi all’interno di una struttura rigorosa. Henrik Tjærby ha interpretato il brief curatoriale in maniera personale, invitando dodici colleghi e amici (anzi, nove designer, uno studio di design, l’azienda finlandese Vaarnii, con cui Tjærby sta lavorando proprio sulla valorizzazione dei legni a crescita rapida come il pino, e lo stesso Museo del Design Italiano) a suggerire un’idea di texture da realizzare su ognuno dei dodici pannelli che compongono il piano di Triennale Table utilizzando processi diversi, dall’intaglio a mano alla spazzolatura meccanica e alla fresatura con un pantografo CNC.
Triennale Table nella mostra Text, Triennale Milano, 2023, foto di Henrik Tjærby
Chi sono le persone che hai coinvolto in questo progetto? Come le hai scelte?
Sono designer che ho conosciuto in diversi momenti della mia vita, alla Royal Academy of Arts di Copenaghen o negli studi in cui ho lavorato, e che per varie ragioni sono importanti per me. Alcuni sono molto famosi, altri meno, ma ognuno di loro mi ha ispirato e mi ha trasmesso qualcosa: un’idea, una tecnica particolare o l’uso di un determinato strumento. In una certa misura, noi siamo le persone che incontriamo lungo il nostro cammino, per questo ho deciso di raccontarmi attraverso di loro.
Insieme, avete costruito una sorta di catalogo di possibilità, con tante trame e finiture diverse che richiedono l’applicazione di un ventaglio di tecniche di lavorazione. Hai lasciato loro carta bianca oppure li hai diretti in qualche modo?
Le uniche restrizioni consistevano nel garantire che il piano potesse contenere un bicchiere, sopportare il proprio peso e mantenere il colore naturale del legno. Avere tutte queste texture e soluzioni insieme sarebbe impossibile in un contesto di produzione industriale, per questo ci siamo divertiti a sperimentare mescolando hi-tech e low-tech. C’è chi ha condiviso con me disegni e istruzioni molto dettagliate, e chi mi ha inviato semplicemente un’immagine. Christian Kornum, che è un caro amico e uno dei maker più talentuosi che io conosca, mi ha mandato una foto delle increspature della sabbia sul fondale marino e mi ha sfidato a riprodurre quell’effetto. Ho capito che ci ero riuscito quando mio figlio, che ha sette anni, ha visto il pannello finito e ha esclamato: “Guarda, papà, il fondo del mare!”. Philippe Malouin mi ha fatto avere un video in cui prendeva un suo sgabello molto famoso, lo chiudeva in una scatola piena di vecchie viti, puntine e materiali di varia natura e lo lanciava dalle scale. Ho interpretato questa idea coinvolgendo i miei figli in un’attività a metà tra il gioco e la performance: abbiamo disposto sul tavolo una serie di piccoli oggetti e li abbiamo presi a martellate, sfruttando la tenerezza del legno di pino. Il risultato è un pattern impossibile da replicare, un vero pezzo unico.
Quasi tutti i designer hanno inserito un tocco di humour, o un riferimento al vostro vissuto comune. Ce ne racconti qualcuno?
Io e Tom Dixon, per il quale ho lavorato parecchi anni fa quando era direttore artistico di Artek, condividiamo la passione per la lavorazione del legno. Entrambi abbiamo un rapporto simbiotico con i nostri strumenti di lavoro, da qui la sua idea, che mi piace molto perché non ha bisogno di spiegazioni, di creare una sorta di cassetta degli attrezzi. È evidente, infatti, quale oggetto appartenga a ognuno degli alloggiamenti che abbiamo creato, non c’è bisogno di scrivere “cacciavite” o “martello”. Anche Max Lamb, come me e Tom, è un patito degli attrezzi e ha realizzato una tavola con una serie di fori e di indicazioni sugli angoli con i quali sono stati realizzati, un progetto che potrebbe avere un’utilità pratica in laboratorio.
C’è anche un cassetto segreto con una brugola…
Sì, è inserito nel pannello disegnato da Jamie McLellan. È stato direttore creativo di Allbirds, un’azienda californiana che ha sviluppato sneakers a impatto zero sull’ambiente e ha un approccio al design molto scanzonato e divertente. Gli ho spiegato che stavo progettando un tavolo molto lungo che avrebbe dovuto viaggiare per circa due mila chilometri tra la Spagna e l’Italia, Milano, e volevo fare in modo che potesse essere assemblato facilmente con un solo attrezzo: una brugola a L standard, come quelle che si trovano all’Ikea.
Triennale Table, dettaglio, foto di Henrik Tjærby
Qual è stato il pannello più difficile da realizzare?
Samuel Wilkinson, che ho conosciuto vent’anni fa quando lavoravamo insieme per lo studio londinese Pearson Lloyd, mi ha proposto un disegno con 648 cubi, ciascuno di due centimetri per lato, da realizzare con una fresatrice CNC. È stato molto difficile sul piano tecnico perché ho dovuto lavorare lentamente, rimuovendo piccole porzioni di materiale per evitare che i cubi si rompessero. Il risultato però mi piace molto, è solido ma dà un’impressione di leggerezza. Anche l’idea di Felix De Voss è stata complicata da mettere in pratica, ha voluto che riproducessi un pattern dentato simile alla superficie dei batticarne a martello con una sorta di effetto a gradiente. Lo spessore del motivo nella parte bassa del pannello è di un solo decimo di millimetro, perciò non avevo margini di errore.
Triennale Table, dettaglio, foto di Henrik Tjærby
Nel corso della tua carriera hai disegnato un certo numero di tavoli di grandi dimensioni e panche. Il tavolo Osa, per esempio, che hai progettato per Vaarnii lo scorso anno ed è in legno di pino come Triennale Table, supera i tre metri di lunghezza nella sua versione maxi ed è pensato per le cene estive all’aperto. La convivialità è importante per te?
I tavoli e le panche mi piacciono soprattutto per le loro qualità architettoniche e perché necessitano di meno accorgimenti ergonomici rispetto, per esempio, a una sedia: non c’è bisogno di pensare a un poggiatesta o al fatto che possano essere impilati. Però anche l’aspetto conviviale è importante. I pannelli che compongono il piano di Triennale Table sono larghi 55 centimetri, che è lo spazio ideale per ogni commensale. Di questo particolare progetto adoro il fatto che, con lo stesso principio costruttivo e grazie alle gambe brutaliste, potrei teoricamente andare avanti all’infinito, anche fino a occupare tutto lo spazio del museo.
Triennale Table, dettaglio, foto di Henrik Tjærby