La leggendaria “lampada di maglia” frutto dell’estro di Bruno Munari nasce da un’intuizione: sfruttare l’elasticità e la capacità di penetrazione della luce della filanca, un materiale comunemente destinato alla produzione di maglie e collant. Proprietà che continuano a suscitare l’interesse di molti designer.
Che cosa rende un oggetto di design suscettibile di diventare un’icona? Rispondere a questa domanda non è facile, come non è semplice individuare una ricetta ben precisa alla base del successo di un prodotto: nella maggior parte dei casi, a funzionare è la felice compresenza di diversi fattori che spaziano dall'essenzialità delle forme all’uso di materie prime adatte, oltre alla capacità di interpretare l’esprit du temps intercettando bisogni e desideri ancora inespressi. A volte, come nel caso della lampada Falkland disegnata da Bruno Munari (1907-1998) per Danese Milano, inclusa nel percorso della mostra La tradizione del nuovo curata da Marco Sammicheli, Direttore del Museo del Design Italiano di Triennale Milano, la storia di un’icona comincia con una “rapina disciplinare” – con l’idea, cioè, che un materiale comunemente utilizzato in un certo ambito possa rivelarsi ideale per progettare qualcosa di completamente diverso, di impensato.
Bruno Munari, Falkland, lampada a sospensione, Danese Milano, ph. Amendolagine Barracchia, © Triennale Milano
Nel 1964, quando Munari ricevette da Bruno Danese la richiesta di creare una lampada che fosse al tempo stesso pratica, resistente ed economica, capace di diffondere una luce morbida e di poter essere venduta in una confezione compatta e facile da trasportare – un oggetto tipicamente munariano, insomma – la sua mente volò in Giappone, un Paese amato e visitato a più riprese, e alle lanterne tradizionali in carta di riso. Questo materiale, fragile e tendente a ingiallire nel tempo, oltre a non essere diffuso a buon mercato in Europa, poneva però al designer non pochi problemi. La soluzione, ingegnosa e spiazzante, arrivò dal mondo della maglieria e della calzetteria: la filanca, una fibra sintetica prodotta industrialmente, usata soprattutto per produrre collant da donna. Diffusa proprio negli anni sessanta, la filanca aveva tutte le qualità necessarie per essere inclusa nel progetto: permeabile alla luce, economica, lavabile e resistente sia al calore che all’ingiallimento.
Ritratto fotografico di Bruno Munari, courtesy Danese Milano
Nel suo libro Fantasia, Munari racconta lo stupore degli addetti delle fabbriche che aveva visitato per testare il comportamento dei tubolari di maglia elastica e sperimentare le possibili forme che questo materiale poteva assumere in relazione ad altri elementi:
Un giorno sono andato in una fabbrica di maglieria per vedere se mi potevano fare una lampada. Noi non facciamo lampade, mi risposero. E io: vedrete che le farete.
L’oggetto che risultò da questo lavoro, la lampada Falkland che oggi tutti conosciamo, ha una forma “spontanea” che non è frutto di un disegno tecnico ma deriva dall’elasticità del tubo di filanca e dall’azione dei cerchi in tondino di metallo di diametri differenti che lo allargano a distanze regolari grazie a una serie di “asole”. “È una lampada che ha un aspetto naturale, come per esempio la canna di bambù, e che per questo viene accettata dal pubblico”, ha spiegato ancora Munari agli studenti dello IUAV di Venezia in una celebre lezione tenuta nel marzo del 1992. Anche la forza di gravità fornisce il suo contributo, dal momento che il prodotto, nato nella versione a sospensione e venduto ripiegato in una confezione alta pochi centimetri, acquista da solo la sua forma allungata una volta appeso al soffitto.
Oggi, le calze femminili sono prodotte principalmente in lycra, una fibra realizzata con il poliuretano chiamata anche elastan o spandex, e questo materiale elastico continua di tanto in tanto a fare incursione nell’ambiente domestico. All’inizio degli anni dieci, per esempio, è stato al centro di due progetti di Lanzavecchia + Wai, il duo creativo formato da Francesca Lanzavecchia (1983) e Hunn Wai (1980), nato sui banchi della Design Academy di Eindhoven e specialista di un uso non scontato del tessile. Nella Spaziale Series, presentata nel 2010, i due designer hanno rivestito con un’epidermide di lycra semplici strutture in legno create con l’aiuto di un maestro ebanista dando vita a una serie di bizzarre “creature domestiche” in grado di plasmarsi sulla forma del loro contenuto: una sedia-cocoon in cui è possibile isolarsi dall’ambiente circostante, una libreria a geometria variabile e un comò con una bocca elastica al posto dei cassetti. Nel 2011, hanno proposto Fragmented Cabinets 01 e 02, mobili modulari e multifunzione nei quali i pannelli laterali e le ante sono sostituiti da bande di tessuto elastico che permettono l’apertura in qualunque punto.
Lo stesso materiale è al centro di Santapouf disegnato da Denis Santachiara (1950) per Campeggi, sempre nel 2011: un innovativo ibrido caratterizzato da un sinuoso profilo a onde sovrapposte che cumula le funzioni di piccola seduta d’appoggio, tavolino e letto gonfiabile.
Lo scorso giugno, infine, la designer Serena Confalonieri (1980) ha svelato al pubblico del Fuorisalone una lampada prodotta da Servomuto che ricorda la Falkland per il suo diffusore in lycra posizionato su un’armatura metallica. In Venus, però, la scelta del materiale elastico risponde all’esigenza (giudicata frivola da Munari, che a chi gli chiedeva come mai la sua creazione esistesse in un unico colore, il bianco, rispondeva che bastava inserire una lampadina colorata per cambiare situazione cromatica, ma la sensibilità contemporanea è assai diversa da quella degli anni sessanta e la policromia risulta di grande effetto scenico) di “vestire” e “svestire” la lampada di nuance differenti: beige sabbia, azzurro polvere, lilla, arancio squillante o bordeaux. Il rimando al corpo femminile e alla seduzione è evidente già a partire dal nome del prodotto, che evoca il film Venus in Fur di Roman Polanski e le sue atmosfere torbide.