Peeping Tom, foto Virginia Rota

Pensieri in movimento. Intervista ai Peeping Tom

28 aprile 2023

È un fatto che, dentro il capitalismo della sorveglianza, siamo continuamente tracciati. O per volontaria cessione dei nostri dati in cambio di servizi demagogicamente gratuiti, o per geolocalizzazioni a noi sconosciute e giustificate con l’argomento della sicurezza, qualcuno o qualcosa conosce le nostre preferenze e disegna le nostre abitudini. Qualcuno o qualcosa ci guarda sempre... o quasi. Esistono infatti, e da ciò possiamo trarre sollievo o infinito terrore, delle zone d’ombra oscure persino a noi stessi: ritratti di paure e proiezioni di desideri che non abbiamo il coraggio di guardare dallo spioncino della serratura del nostro inconscio.

Triptych, foto Andrea Macchia

Per questo, a farlo al posto nostro – intendo a scavare nella detumescenza dei nostri legittimi traumi – ci pensano i Peeping Tom. Con il loro spettacolo DIPTYCH. The Missing Door and The Lost Room, in scena sul palco di Triennale Milano il 5 e il 6 maggio 2023, potremmo guardare i nostri riflessi dentro innumerevoli specchi, alcuni distorcenti, altri drammaticamente riflettenti.

In un susseguirsi di scenari onirici, e dentro una composizione per quadri cinematografici, Gabriela Carrizo e Franck Chartier plasmano il nostro incubo, qualunque esso sia. In occasione delle prossime rappresentazioni in Triennale, ho chiesto a Gabriela di raccontarmi le origini di questo spettacolo inizialmente pensato in tre capitoli, con il titolo di TRYPTICH, il ruolo dei performers nello sviluppo dell’opera e l’importanza di attraversare le porte, anche quando c’è il rischio che non portino in nessun luogo, in nessun altrove.

DIPTYCH è stato originariamente rappresentato in forma espansa, cioè come TRYPTICH, di recente nominato “Best International Theatre Production” al Premis de la Critica in Barcelona e “Best New Dance Production” agli Olivier Awards britannici. Quali sono state le difficoltà della riduzione e possono i tre capitoli esistere drammaturgicamente da soli?

I tre pezzi sono stati concepiti in momenti diversi, anche se dentro lo stesso quadro evolutivo. Il primo è nato durante una residenza breve, di circa sei settimane, presso il Nederlands Dans Theater. Era il 2013, quando ho cominciato a lavorare sulla spazialità delle sale del teatro, e poi quei luoghi hanno condizionato anche il lavoro con i danzatori. Il pezzo che ne è uscito, The Missing Door, è breve e in seguito Franck (Chartier, ndr) è stato invitato ad ampliare il lavoro a partire dagli stessi personaggi. Così ha cominciato a chiedersi come sarebbero mutati i comportamenti dei personaggi dentro uno spazio nuovo, quello della nave: ne è nato The Lost Room, che rispetto al primo capitolo approfondisce i pensieri della giovane donna. La conclusione, con il terzo capitolo, The Hidden Floor, cresce naturalmente, perché i personaggi si radicano dentro la pelle degli interpreti che, conoscendoli più lucidamente, fanno aggiustamenti interni e complementari. Esistono vincoli tecnici che richiedono degli adattamenti, magari delle riduzioni, ma a volte proprio a causa di questi limiti si possono partorire idee originali. 

© Maarten Van den Abeele

Nella vostra visione anche gli interpreti devono essere trattati come soggetti creatori: quanto conta che abbiano spirito di iniziativa?

Noi facciamo audizioni in stadi diversi del processo creativo, perciò la drammaturgia può subire mutamenti nella forma espressiva, che possono essere lievi ma significare molto per le vicende intime del personaggio. 
È difficile dire cosa ci colpisca di un performer. Cerchiamo una certa plasticità, corpi che possiamo plasmare. Quasi sempre però prevale l’istinto: capita che durante le audizioni vorremmo continuare a vedere quella persona esibirsi, perché ci sentiamo attratti dal mistero che custodisce. 

© Maarten Van den Abeele

In questo processo partecipativo di creazione, capita che vi siano divergenze importanti tra te e Franck?

Spesso! È un rischio connaturato alla libertà assoluta che ci concediamo. A pensarci bene, abbiamo dei ruoli non scritti. Franck ad esempio è rigoroso, cerca di fissare i punti, di mettere ordine nelle proposte; io intervengo sull’essenza, sulle dinamiche di movimento delle singole proposte. E quando non siamo d’accordo, continuiamo a provare, provare, provare...

Aggiungiamo un terzo componente: il suono. In che momento della creazione interviene e come influenza il resto della scrittura?

Raphaëlle Latini è una sound designer eccezionale: si occupa della drammaturgia del suono e ci aiuta nel concepire tutto lo spettacolo. Per noi è cruciale che vi sia una dialettica organica tra parole e suono, e a volte questo ci porta a sviluppi imprevedibili nei linguaggi. In fondo è il senso della creazione: scoprire cose nuove, mai da soli.  

Courtesy Peeping Tom

Missing, Hidden, Lost suscitano in me l’idea che spiare dal buco della serratura possa portare allo smarrimento e, nel peggiore dei casi, alla perdizione. Non hai il timore di cadere in una “pornografia del dolore”, guardando così a fondo?

La scelta dei set cinematografici amplifica la componente di finzione. La forma filmica ci permette, ad esempio, di far morire continuamente – e metaforicamente – i personaggi in scena: il loro è un viaggio dentro il pensiero e dentro la vita stessa, e per questo passiamo a un’ambientazione che evoca la traversata, e cioè la camera di una nave. L’acqua che invade la scena è esattamente la vita che ti afferra e ti scavalca, e questo vale per tutti, è un fatto. Abbiamo ossessioni, cose che non osiamo fare, pensieri invisibili alla coscienza, e sono lampi di fragilità inespressi. C’è un’intimità, una segretezza che non si può nominare, che si deve tenere solo per sé stessi. Quello che noi mostriamo non è buono o cattivo: è il non detto, e certamente è oscuro, a volte violento come tutte le rivelazioni, ma non ha l’intento esplicito di destabilizzare il pubblico. Emerge come parte del processo, imprevedibile e inatteso, della creazione: vogliamo scoprire i sentimenti, non dare un messaggio.

Gabriela Carrizo

Allo stesso modo del pensiero, che non è lineare, la nostra danza non può esserlo, perché altro non è che pensiero in movimento. 

A me piace pensare al verso del poeta William Blake sulle “porte della percezione”: quando sono limpide, abbiamo accesso all’infinito. Secondo te dobbiamo temere le porte aperte o quelle chiuse?

Dalle porte arriva sempre qualche imprevisto, e ciò può spaventare. Ci siamo ispirati al cinema proprio per comunicare il senso di suspence e di attesa che mi paralizza, quando la mente percorre sentieri sconfinati ma il corpo è immobilizzato dalla paura. Ma noi lavoriamo dentro queste contraddizioni, le attraversiamo sempre. Anche i nostri personaggi attraversano  porte ritrovandosi nello stesso posto. Ma è importante restare in moto dentro questo labirinto.

Courtesy Peeping Tom

Labirintico è lo spazio ma anche il tempo, come “trama di sogni avidi che siamo”, direbbe Jorge Luis Borges.

Il tempo è uno sconosciuto, e anche nello spettacolo la memoria si sovrappone all’esperienza presente: i flussi accelerano, si fermano, gli strati temporali si confondono. Per me la lettura di Borges significa molto, è parte delle mie radici argentine e provo a ispirarmi a lui per inserire queste ispirazioni dentro una narrazione mitologica più grande. Allo stesso modo del pensiero, che non è lineare, la nostra danza non può esserlo, perché altro non è che pensiero in movimento. 

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