© Claudia Pajewski

Togliere le fotografie dalle pareti: Valentino Villa su Au bord

27 settembre 2022

Lynndie England, con indosso dei pantaloni militari e una maglietta a tinta unita, tiene al guinzaglio un uomo, nudo, riverso sul pavimento. Lo sguardo di lei, che si posa sul prigioniero, non è ricambiato, poiché l’uomo guarda in macchina [qui la foto]. Il ritaglio della foto, di formato quadrato, lascia fuori bacino e gambe. Dietro, un corridoio che in prospettiva lascia intravedere le porte di alcune celle alle quali sono appesi, sembra, lenzuola e asciugamani. In terra fogli sparsi, forse dal vento. Nell’aprile 2004 questa fotografia viene rilasciata dalla rete televisiva statunitense CBS, all’interno di un documentario, 60 minutes, nel quale è soltanto una tra le tante. Il documentario condanna le torture che i militari americani hanno inflitto ai prigionieri del carcere di Abu Grahib (“Il posto dei corvi”), in Iraq. Già dal novembre 2003 cominciava a diffondersi la notizia di irregolarità nel carcere, grazie a un reportage dell’agenzia di stampa Associated Press. A oggi, sono stati condannati undici militari, ma i processi sono ancora in corso.

Valentino Villa – regista vincitore con Deflorian/Tagliarini del Premio Ubu 2014 per la miglior novità italiana e per la ricerca drammaturgica – mette in scena, su drammaturgia di Claudine Galea, Au bord, monologo di sessanta minuti che muove proprio dalla foto di Lynndie England. Gli abbiamo posto quattro domande che, a partire dalla foto, cercano di comprendere il significato politico e artistico dello spettacolo, in programma per la stagione teatrale 2022 di Triennale Milano, il 29 e il 30 novembre.

© Cosimo Trimboli, Romaeuropa Festival

Partiamo dalla genesi dello spettacolo, anzi: da ciò che viene prima della genesi. Ricorda cosa ha provato la prima volta che ha visto quella foto?

Come molti di noi, se non altro per mere questioni anagrafiche – alcuni miei collaboratori più giovani non hanno addirittura mai visto queste immagini – ricordo vagamente il momento in cui sono entrato in contatto con le fotografie scattate ad Abu Ghraib e che sono state poi diffuse dalla stampa internazionale. La reazione immediata è sicuramente stata quella di un’indignazione umana e politica ma solo quando ho avuto l’occasione di leggere la prima volta Au bord mi sono realmente confrontato con quelle immagini, con il loro scandalo, con la loro forza e ho avuto subito la sensazione che si fossero depositate nella mia memoria. Nascoste. Il processo graduale di messa a fuoco di questo oggetto, la fotografia di cui parla il testo, e del suo significato, credo abbia a che fare con il processo che alcuni spettatori faranno attraversando lo spettacolo.

E com’è nato lo spettacolo? In che modo il suo lavoro e quello della scrittrice Claudine Galea si sono incontrati? 

Ho conosciuto il lavoro di Claudine Galea proprio leggendo Au bord. Devo ringraziare Valentina Fago per avermi suggerito questa lettura. Ed è lei a essersi occupata della traduzione in lingua italiana del testo. Alla prima lettura sono stato folgorato dal senso di libertà che la scrittura trasmetteva, di sfrontatezza o di scandalo. Ma anche dal suo riuscire a portare il discorso sulla fotografia in un territorio più intimo che riguarda l’autrice – e tutti noi. Dietro questa intimità mi sembra si nasconda un’analisi glaciale, chirurgica, della violenza dell’immagine, del modo in cui entra in contatto con la nostra umanità o con la nostra disumanità. 

© Cosimo Trimboli, Romaeuropa Festival
© Cosimo Trimboli, Romaeuropa Festival

Parliamo della foto, nello specifico. La “composizione” rivela prima di tutto una gerarchia di agentività. Mostra, in altre parole, come i tre agenti (fotografo, militare, prigioniero) stiano in un rapporto di disequilibrio prima di tutto al livello della presa di parola. Il fotografo “parla” attraverso la sua scelta di inquadrare (lasciando fuori parte del corpo del prigioniero), la militare “parla” attraverso la linea di forza dettata dal suo sguardo e continuata dal guinzaglio, il prigioniero è riverso a terra, in silenzio. In che modo Au bord (“sul bordo”) traduce queste tre “voci” in quella  singolare del “monologo”? Oppure: chi parla durante?

Naturalmente la questione del parlante e dell’interlocutore è più insidiosa di quanto si pensi, lo è sempre, lo è molto in questo caso. Di fronte a un’immagine siamo sempre da soli e chi parla nel testo è un essere umano, una donna occidentale, nella sua singolarità ma allo stesso tempo parte di una sorta di inconscio collettivo in cui le immagini o i loro stereotipi risiedono ed emergono periodicamente. La foto infatti la riguarda non solo nei termini di una reazione di indignazione, sia essa politica o umana, ma anche in quanto fatto culturale: al contrario di chi guarda, l’immagine non è mai sola ma parla da un luogo in cui tutte le immagini entrano in relazione tra loro. Come noto nel suo Mnemosyne, Aby Warburg dimostrava come moti, gesti e posture che rappresentano l’intera gamma dell’eccitazione emozionale ritornano in forme e temi ricorrenti nella storia della nostra cultura visiva (le così dette Pathosformel). Sono gli equilibri della fotografia a parlare qui più che i soggetti in essa ritratti. Inoltre, chi parla, nel testo, è inequivocabilmente l’autrice, Claudine Galea. È lei ad aver deciso, per tutti noi, di fermarsi di fronte a questa immagine di orrore. Eppure, il dispositivo drammaturgico che nasce dalla sua scrittura, a mio parere, non dà la possibilità di una perfetta sovrapposizione tra l’autrice e chi interpreta il testo in scena, in questo caso Monica Piseddu. È chiaro chi parla nel testo ma in scena? Date queste premesse abbiamo voluto scartare la possibilità di un’identificazione tra Claudine Galea e Monica Piseddu e abbiamo scelto di scivolare, al contrario, in un processo di disidentificazione del parlante. 

© Claudia Pajewski

Che cosa rimane dell’elemento “politico” e “documentario” dell’originale, dal quale lo spettacolo muove? Come si è posto di fronte a questo residuo? È sua intenzione rimanere politico oppure l’immagine e la situazione sono l’occasione per un discorso più “grande”, da minimi sistemi a massimi? La domanda sorge anche considerando: la distanza temporale che intercorre tra questo spettacolo e lo scatto fotografico; e l’inevitabile selezione di questo scatto all’interno, purtroppo, di un corpus

Le foto di Abu Ghraib non sono immagini malgrado tutto, sfuggite alla Storia. Non sono eventuali ma programmatiche. I soggetti immortalati hanno deliberatamente deciso di realizzare queste immagini, ne hanno plasmato la loro natura. Queste immagini sono una messa in scena della tortura e del disumano. Credo che qualunque immagine, qualunque gesto, qualunque spettacolo sia “politico”. Il testo, così come lo spettacolo, non intendono evidenziare questa dimensione di “bottino di guerra” (per citare la stessa Claudine Galea) o il portato documentale che queste immagini offrono. Il problema non è nemmeno la foto specifica o il suo contenuto. Il problema siamo noi. Noi di fronte a un’immagine che mette in scena la nostra disumanità e con la quale evitiamo di fare i conti, che evitiamo di guardare veramente. L’orrore che queste immagini suscitano – sembra suggerire il nostro testo – è proporzionale a quello che ognuno di noi custodisce nelle sue zone d’ombra e del quale la fotografia non è che il riflesso. Claudine Galea prova invece a scivolare sull’immagine superando l’orrore, superando lo scandalo per provare ad articolare un discorso più ampio che riguarda ciò che guardiamo e, per dirla con Georges Didi-Huberman, reinventando attraverso il guardare la lingua, fare poesia in senso etimologico. Nel suo The Abu Ghraib Effect lo storico dell’arte Stephen F. Eisenman sostiene che la reazione superficiale e frettolosa di indignazione e scandalo suscitata dalle foto di Abu Ghraib sia da ricercarsi in un certo grado di familiarità. Cosa è questa familiarità? È un sentimento che deriva dal ripetersi, nella cultura visiva occidentale di “formule del pathos”. Alcuni, forse sbagliando, hanno paragonato le foto scattate nel carcere iracheno con alcune opere di Francisco Goya, opere però di denuncia, diremmo oggi; cosa che le immagini di Abu Ghraib non sono. Altri ancora si sono rivolti alla pornografia evidenziando la natura esplicitamente sessuale che le foto delle torture contengono. Eisenmann fa un passo ulteriore e ci mostra come questi scatti siano profondamente legati alla classicità, come le loro forme siano radicate nella nostra cultura, a immagini di supremazia, tortura e imperialistiche. Per questo credo che il problema della distanza temporale sia un falso problema: tra me e il gruppo scultoreo di Laocoonte e i suoi figli ci sono di mezzo duemila anni. Sta a me trovare la forza per riconoscere, oltre lo stupore e la bellezza, la sofferenza dei soggetti rappresentati che ha esattamente la stessa valenza politica e la stessa radice umana – sia in termini propagandistici che imperialisti – delle sofferenze del prigioniero tenuto al guinzaglio nella prigione di Abu Ghraib o della violenza della supremazia occidentale che queste immagini manifestano e incarnano.

Da una parte l’opposizione, dunque, parola-silenzio (del resto, prendere la parola significa, anche, toglierla); dall’altra l’opposizione movimento-immobilità. La foto è, per sua natura, immobile, fissa, ma nasconde, chiude un movimento. Quali sono state le scelte registiche e coreografiche in materia di movimento? Il soggetto monologante cosa fa? Ma soprattutto, qual è l’obiettivo del suo fare?

Per Claudine Galea l’immagine si rivela solo quando la fotografia non è più “attaccata alla parete” su cui osservarla, quando “le immagini nere iniziano a emergere dal muro bianco”. Per lei solo le “immagini fantasma” sono immagini reali. Ed è queste immagini che crea la sua scrittura. Con Sander Looner abbiamo pensato la scena come una stanza bianca, un bianco su bianco che si appoggia su opere come Quadrato bianco su sfondo bianco di Kazimir Malevič o, perché no, i White Paintings di Robert Rauschenberg. Manca di corpo, di confini, forse anche di realtà, forse sfida anche la definizione di spazio e come spesso accade, non è certo una novità, si fa immagine. Parallelamente si muove anche il lavoro di soundscaping di Fred Defraye. In scena noi vorremmo immaginare non un io che può contenere queste immagini ma sfuggenti figure che appaiono lievi per precipitare nella loro irrappresentabilità e che, più di ogni cosa, ci chiedano di affinare lo sguardo. Abbiamo aggiunto un semplice filtro che permettesse al corpo di Monica Piseddu di sottrarsi alla piena vista e che permettesse allo sguardo del pubblico di avvicinarsi e non viceversa. È anche in questa direzione che il lavoro sul corpo di Marco Angelilli tenta di mettere in crisi l’unità. Abbiamo cercato ulteriore fonte di ispirazione nel lavoro di Cindy Sherman, nella sua ricerca sulla costruzione dell’identità, sul modo in cui comportamenti, performance e immagini costruiscono gli stereotipi di genere, sui codici visivi che abbreviano la nostra costruzione e classificazione del mondo, sull’artificialità di queste immagini. 

©Cosimo Trimboli, Romaeuropa Festival

A conclusione: in che modo questo spettacolo si inserisce nel suo percorso creativo, nella sua “poetica”? Che direzione vuole prendere?

Questo spettacolo è, in prima battuta, per me una magnifica occasione di condividere con il pubblico l’incontro con Monica Piseddu. Era da tempo che desideravamo collaborare e Au bord ne ha rappresentato l’occasione. È l’interprete ideale per restituire la complessità di questo testo. Lo abbiamo letto e scoperto insieme e sempre insieme lo abbiamo esplorato scegliendo percorsi e strade differenti fino alla sua messa in scena. Nonostante il rapporto che ci lega, è la prima volta che le nostre differenti modalità di lavoro si confrontano e credo che questo abbia portato qualcosa di nuovo nei percorsi artistici di entrambi. Il mio è molto legato alla drammaturgia contemporanea e classica così come alla musica e all’Opera. La natura di questo testo rappresenta per me una vera e propria sfida. Gli elementi estetici, formali, visivi che caratterizzano il mio lavoro, le geometrie di natura quasi coreografica che usualmente costruisco sulla scena o l’utilizzo spesso plastico delle luci, si confrontano qui con un materiale più complesso, fragile, pericoloso, apparentemente privo di narrazione ma con una struttura drammaturgica invece molto precisa e affilata. È un terreno in cui si confondono personale e politico, soggettività e universalità, documento e immaginazione, realtà e finzione e in cui ciascuno di questi elementi chiede di avere un proprio spazio all’interno della costruzione scenica. 

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